Il nemico della pace si chiama Putin Analisi di Paola Peduzzi
Testata: Il Foglio Data: 11 ottobre 2022 Pagina: 1 Autore: Paola Peduzzi Titolo: «Il nemico della pace si chiama Putin»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 11/10/2022, a pag. 1, con il titolo "Il nemico della pace si chiama Putin", l'analisi di Paola Peduzzi.
Paola Peduzzi
Vladimir Putin
Milano. Il premier olandese, Mark Rutte, ha detto commentando gli attacchi multipli, coordinati, indiscriminati e mortali della Russia contro dodici città ucraine: “Questa non è una rappresaglia, questo è terrorismo”. Fin dall’inizio della invasione di Vladimir Putin in Ucraina i termini utilizzati, anche quelli più duri sui crimini, per definire la strategia adottata dall’esercito russo contro i civili sono parsi riduttivi: la definizione di “atti di terrorismo” varia nei differenti paesi, ma comprende sempre l’idea di un’intimidazione violenta della popolazione civile di un paese. Che è quello che Putin fa con determinazione da febbraio, su tutto il territorio ucraino, anche dopo i cosiddetti “ritiri”, anche nelle zone occupate, come scopriamo ogni volta che l’esercito ucraino arriva a liberarle. Di recente c’è stata un’enfasi sulla parola “parziale”: la mobilitazione parziale, l’annessione parziale. L’unica cosa che non è mai stata parziale è la violenza putiniana sul popolo ucraino, che si è espressa nei modi che avevamo conosciuto in Cecenia e in Siria. Le stragi non sono un effetto collaterale della guerra, ma sono uno strumento utilizzato in modo deliberato per seminare il terrore e impedire qualsivoglia normalità. Negli attacchi di ieri, la Russia non ha nemmeno adottato la solita tattica di indicare come obiettivi strategici e militari condomini, supermercati, parchi, strade, scuole, ospedali: Putin ha detto che si trattava di una “rappresaglia” contro “l’atto terroristico” compiuto dagli ucraini, cioè l’esplosione del ponte di Kerch in Crimea. Questi attacchi multipli sono soltanto una parte della più ampia lotta ai “terroristi” che il Cremlino dice di fare in Ucraina. Il passaggio semantico al terrorismo è veloce – noi siamo ancora fermi alla condanna della rappresaglia, dell’escalation inaccettabile, dei crimini, temiamo di utilizzare il termine “terrorismo”, mentre Putin ha già fatto lo scatto – ma non è nuovo: anche in Cecenia Putin combatteva il terrorismo, anche in Siria Putin combatteva il terrorismo (anzi: lo fa ancora, siamo solo noi che abbiamo distolto l’attenzione). Ci ha pure convinti, per qualche tempo, che stessimo combattendo la stessa guerra al terrorismo, e persino oggi c’è chi considera la Russia come un fattore di stabilizzazione nella crisi siriana e nelle sue derivazioni. Non è soltanto l’Ucraina a chiedere che la Russia sia indicata in modo formale come uno stato che sponsorizza il terrorismo. In Europa i paesi baltici sono come su quasi tutto i più espliciti. Kaja Kallas, premier estone, ha ribadito ieri: “Il bombardamento dell’Ucraina inclusa Kyiv mostra le tattiche terroristiche della Russia”. In America le cose sono più complicate. All’inizio di settembre, l’Amministrazione Biden ha deciso, nonostante le pressioni, di non mettere la Russia nella lista degli stati che sponsorizzano il terrorismo (dove ci sono già Iran, Siria, Corea del nord e Cuba) per evitare “conseguenze involontarie” nei confronti dell’Ucraina e del resto del mondo. Le delegazioni di deputati e senatori americani che sono andate negli scorsi mesi a Kyiv avevano detto al presidente Volodymyr Zelensky che avrebbero lavorato per inserire la Russia nella lista, è stata presentata e votata una risoluzione per accelerare il processo e anche lo stesso capo della diplomazia americana, il segretario di stato Antony Blinken, ha detto in passato che l’ipotesi era presa in seria considerazione. Oggi è in lavorazione al Congresso una legge che permetterebbe al Congresso di bypassare il dipartimento di stato, al quale in teoria spetta la decisione finale. L’Amministrazione Biden aveva deciso di non fare questo passo che ha un significato simbolico enorme – e che molti consideravano necessario se non dovuto – a causa delle sue conseguenze umanitarie e tattiche, in particolare quella di chiudere ogni spiraglio di dialogo con la Russia, a ennesima dimostrazione che non è l’occidente che chiude la porta alle trattative, è la Russia che le rende impraticabili. Ingrid Wuerth Brunk, docente di Diritto internazionale alla Vanderbilt Law School e codirettrice dell’American Journal of International Law scrive da un paio di mesi le ragioni per cui l’inserimento della Russia nella lista degli stati sponsor del terrore potrebbe essere controproducente. In particolare dice la studiosa che la presenza nella lista potrebbe ridurre la quantità di asset russi ora congelati che sarebbero messi a disposizione della ricostruzione dell’Ucraina (diventerebbero di fatto meno accessibili), oltre a rendere complicati molti processi legali su beni e persone russe. Qualche giorno fa, la Brunk ha spiegato che nella legge in discussione al Congresso ci sono degli elementi nuovi e azzeccati per minimizzare i rischi insiti nell’inserire la Russia nella lista ma resta il punto centrale che è quello di indicare, dice la Brunk, un insieme di elementi che potrebbe essere rivisto nel caso finissero le ostilità. Cioè, ancora una volta, gli Stati Uniti si vogliono dotare di ogni cavillo possibile per avviare una trattativa quando dovesse arrivare il momento, che è l’esatto contrario di quel che si dice sull’isteria congiunta di americani e ucraini.
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