Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 10/10/2022, a pag. 6, con il titolo 'Quando la presenza dell’avversario politico è una profanazione' l'intervista di Le Figaro a James Davison Hunter.
James Davison Hunter
Nel 1991, James Davison Hunter rendeva popolare il concetto di guerre culturali in un saggio profetico: “Culture Wars”. Trent’anni dopo, Hunter, professore di Sociologia e specialista delle religioni all’Università della Virginia, torna da analizzare sul Figaro questa frattura che divide gli Stati Uniti.
Le Figaro – Com’è nato il concetto di guerre culturali?
James Davison Hunter – In occasione di un’inchiesta condotta negli Stati Uniti, in Germania e in Gran Bretagna, ho scoperto che le élite, religiose, economiche, mediatiche, intellettuali o appartenenti alle tradizioni protestante, cattolica o ebraica, avevano più cose in comune tra loro rispetto al resto dei membri della propria tradizione, e viceversa. Era qualcosa di significativo in ragione dell’antica animosità tra protestanti e cattolici negli Stati Uniti, antagonismo a cui si è aggiunto l’antisemitismo a partire dal 1880, quando l’immigrazione ebraica ha assunto dimensioni importanti. Improvvisamente, i rappresentanti di queste credenze hanno iniziato a essere d’accordo sulle stesse questioni: ciò che li univa era una visione più decentralizzata dell’autorità, una cosmologia demistificata, dove la scienza e l’esperienza soggettiva erano diventate più importanti per determinare l’ordine sociale. Il che sfociava su concezioni diverse del sacro: le loro posizioni sull’aborto, sul gender, sulla famiglia e i valori familiari. Più essenzialmente, la politica del corpo umano e l’autorità sul corpo, tutto si riduceva a una questione di comprensioni concorrenti sul modo in cui concepiamo ciò che è reale e ciò che è sacro.
I disaccordi su queste questioni riflettono un antagonismo più profondo? Sì. Tutte queste questioni su cui esiste una polarizzazione possono essere viste come una serie di conflitti culturali separati. Ma esse appartengono alla stessa guerra culturale, che nasce da un disaccordo veemente sui valori fondamentali. Émile Durkheim diceva che il sacro e il profano sono una dicotomia che è sopravvissuta alla secolarizzazione. Negli ultimi trentacinque anni, queste nozioni concorrenti del sacro e dell’autorità sono evolute verso progetti egemonici concorrenti e incompatibili.
Al punto da arrivare a un conflitto? Siamo in una fase in cui le persone non possono più parlarsi perché non riconoscono nemmeno il linguaggio morale dell’altro. E poiché sono dei temi radicati nel sacro, non sono negoziabili. Essere semplicemente in presenza di qualcuno dell’altro campo diventa una profanazione. L’anno corso, l’Università Duke ha dovuto rinunciare a invitare un professore di Diritto conservatore perché la sua sola presenza nel campus è stata denunciata come una minaccia esistenziale dalle femministe e dai rappresentanti della comunità gay e lesbica. La guerra culturale, iniziata con delle politiche portate avanti da alcuni gruppi di interesse, si è trasformata in una polarizzazione generalizzata, estesa a tutte le istituzioni della società civile, ai media, all’insegnamento superiore, alle scuole pubbliche, alla filantropia e all’integralità della vita pubblica.
L’altro è diventato un pericolo? Questo fenomeno è motivato in gran parte dalla paura, una paura astratta più che reale. I democratici hanno paura dei repubblicani, gli eterosessuali hanno paura dei gay, delle lesbiche, dei transessuali, e i gay hanno paura dell’omofobia. Questa paura è sfruttata dai partiti politici, dai gruppi di interesse speciali. Mobilita le persone affinché vadano a votare e diano soldi: è una forma di incitamento molto potente. Essa è naturalmente sfruttata dalle televisioni e dai social network, dove il nemico viene estremizzato al punto da essere irriconoscibile. Ma anche se questa paura è una cultura comune, non riunisce. (…)
Negli Stati Uniti ci stiamo dirigendo verso una nuova guerra civile o comunque verso la sua versione postmoderna? La situazione attuale è quella di due progetti egemonici opposti. I conservatori hanno perso la loro influenza nell’insegnamento superiore, nella pubblicità e nel campo dell’entertainment. A loro, non resta altro che la politica per difendere i loro interessi. Non penso che scoppierà necessariamente un conflitto armato, quanto piuttosto la sua versione postmoderna, che è il terrorismo, o comunque ci sarà più violenza. In parte perché i giovani non vedono una soluzione democratica. La democrazia formale continuerà, ma maschererà uno scontro segnato da atti di violenza. Se non possiamo più parlarci, e se la solidarietà non può essere generata in maniera organica, allora sarà imposta in maniera non democratica, perché nessun ordine sociale può funzionare senza una certa nozione di comprensione condivisa di ciò che lega le persone.
(Traduzione di Mauro Zanon)
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