Teheran e Mosca, il vento della libertà Editoriale di Maurizio Molinari
Testata: La Repubblica Data: 02 ottobre 2022 Pagina: 1 Autore: Maurizio Molinari Titolo: «Teheran e Mosca, il vento della libertà»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 02/10/2022, a pag. 1, con il titolo "Teheran e Mosca, il vento della libertà" l'analisi del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
Vladimir Putin con l'iraniano Raisi
Se Vladimir Putin diffonde la paura atomica per continuare la guerra contro l'Ucraina e l'Europa è palcoscenico dell'incertezza a causa di prezzi energetici in aumento e recessione in arrivo, c'è un terzo evento globale che tiene banco davanti ai nostri occhi, in queste turbolente settimane di inizio autunno: il coraggio di chi in Iran e Russia sfida i despoti, rischiando la propria vita per amore della libertà. In Iran la "rivoluzione dell'hijab" è iniziata con l'uccisione della giovane donna Mahsa Amini da parte di "Gasht-e Ershad", la "polizia della moralità" creata dal Grande Ayatollah Khomeini dopo la caduta dello Shah nel 1979 per imporre ad ogni donna iraniana di vestire e comportarsi secondo i dettami di una teocrazia oscurantista che considera l'immagine femminile come il più pericoloso dei nemici. Nessuno sa quali e quante violenze Amini ha subito dopo l'arresto ma la sua morte per "infarto" è stata percepita da una moltitudine di iraniane come la più evidente e brutale conferma che la Repubblica Islamica non consente il diritto alla vita a chi contesta l'obbligo all'"hijab", il velo islamico. Chiunque è stato in Iran sa quanto gli scontri fra donne e "pattuglie della moralità" siano frequenti. I poliziotti strattonano, insultano, fermano, arrestano e percuotono senza remore le "donne immonde" e queste rispondono, reagiscono, non cedono, urlando ancora più forte dei loro aguzzini. Equando le pattuglie della “moralità islamica” si allontanano, sono innumerevoli che donne che dentro case, caffè, ristoranti, negozi, hotel - rimuovono l’hijab e tornano ad avere una loro dignità. Ricordo come se fosse ieri l’arrivo a Teheran da Istanbul su un volo della Turkish Airlines con le donne iraniane a bordo che si coprivano in fretta e furia con il velo obbligatorio: alcune imprecavano, altre piangevano. Così come ricordo, come se fosse ieri, il coraggio di una giovane reporter iraniana molestata in pubblico a Teheran solo perché aveva il rossetto sulle labbra: reagì urlando con tutto il fiato che aveva in corpo, e mise in fuga la pattuglia “della moralità”. Questi atti isolati, personali di resistenza non sono mai cessati ma dopo la morte di Mahsa sono diventati un movimento popolare. Questa è la dirompente novità che ha preso di sorpresa i “poliziotti della moralità”, i pasdaran che li proteggono, il regime islamico che li adopera ed anche la Guida della Rivoluzione, Ali Khamenei. È la prima volta che una rivolta di popolo in Iran non ha motivazioni politiche, come avvenne nel 2009 dopo la rielezione del presidente Ahmadinejad viziata da brogli, né economiche, come fu nel 2019 con i moti del pane. Questa volta lo slogan “donna, vita, libertà” nasce dalla rivendicazione delle donne di non essere più oppresse da un regime medioevale che ne annulla diritti e identità. Da qui il simbolo che incarna e racchiude la rivolta: tagliarsi i capelli ripetendo il gesto che indica il lutto, durante un funerale, sin dalla Persia dell’antichità. Il poema epico di Shahnameh (Il Libro dei Re ), scritto da Adul-Qasem Ferdowsi oltre mille anni fa, racconta in quasi 60 mila versi le gesta dei sovrani dell’Antica Persia e, in più occasioni, vi si legge dei “capelli tagliati con un atto di lutto”. Se dunque la teocrazia sciita iraniana opprime le donne con l’ hijab , loro rispondono con un gesto che somma la rabbia della rivolta, l’identificazione con la vittima curda 22enne e l’orgoglio delle radici persiane che gli ayatollah hanno cancellato da libri di storia e carte geografiche per imporre su tutto l’ideologia della Jihad sciita. A fare il resto sono i social network che, nonostante la censura totale del web, trasmettono dentro e fuori l’Iran la forza dirompente di una sollevazione fatta di hijab dati alle fiamme, chiome al vento in segno di sfida ed un crescente numero di mariti, fidanzati, padri, fratelli e parenti maschi che scende in strada a fianco di figlie, madri, mogli, fidanzate e sorelle sfidando larepressione. Impossibile conoscere l’esatto numero delle vittime ma i canti notturni sui tetti di Teheran, la tattica dei piccoli gruppi di manifestanti, le cittadine curde assediate nel Nord e il domino della solidarietà dai giocatori di calcio in giubba nera alle dichiarazioni pubbliche di stelle dell’intrattenimento come Mahmud Shahriari, Mona Borzouei, Katayoun Riahi e Mehran Modiri - ci dicono che la rivoluzione dell’ hijab assedia il potere degli ayatollah. Anche se i portavoce di Teheran continuano ad affermare che la rivolta “che minaccia 400 mila posti di lavoro” è già finita, anzi non è mai stata tale. Per Ali Khamenei, successore di Khomeini, da molti a Teheran considerato gravemente malato, è lo scenario peggiore per gestire il passaggio delle redini del regime al figlio Mojtaba. Perché il risveglio dei diritti delle donne in una nazione antica, coraggiosa e multietnica come la Persia- dove ogni nucleo famigliare ha per tradizione nelle donne i suoi pilastri - pone anche il più brutale dei regimi davanti ad una sfida che, nel lungo termine, non può vincere. Facendo dilagare, su ogni tipo di piattaforma, una realtà destinata a scuotere l’intero Islam: l’avvento delle riforme e della modernità passa attraverso il riscatto delle donne. Ma non è tutto perché il coraggio dei russi che fuggono dal reclutamento obbligatorio di Putin non è certo da meno. Da quando lo zar indebolito dagli smacchi militari in Ucraina ha ordinato di mandare al fronte con la forza un numero di russi stimato fra 300 mila e un milione, un torrente umano si è messo in marcia per fuggire il più presto possibile, con ogni mezzo disponibile, dai monopattini agli aerei commerciali. Le lunghe code di uomini che tentano di superare via terra i confini con Finlandia, Georgia, Kazakhstan e Mongolia descrivono meglio di ogni commento non solo la sfiducia dei russi nel Cremlino e l’impopolarità della guerra ucraina, ma anche il loro coraggio. Per il semplice fatto che, dalle notizie che rimbalzano da piccole e grandi città della Federazione, gli uomini “in età militare” che scappano all’estero, o più in generale evitano la leva, vengono identificati, bollati come disertori e le loro famiglie arrestate per obbligarli a tornare. Il tam tam di racconti personali che si riversa nei Paesi confinanti è martellante e, nelle testimonianze raccolte, evoca la violenza con cui gli ufficiali dei Romanov, negli ultimi anni dell’Impero dello Zar, piombavano nelle case dei villaggi ed arruolavano con la forza i russi per opprimere altri russi. Ecco perché dobbiamo avere rispetto per le donne iraniane che si tolgono l’ hijab e per i russi che fuggono. Le une e gli altri con questi gesti e decisioni rischiano quanto hanno di più caro: la vita, la famiglia, la sicurezza, il lavoro. Lo fanno perché gli autocrati di Teheran e Mosca hanno gettato la maschera e per salvare ciò resta del loro potere assoluto non esitano ad esercitare la violenza più cieca contro i propri abitanti. Per le democrazie euroatlantiche e per i loro cittadini è un dovere morale e politico essere a fianco di chi rischia la vita per difendere le proprie libertà. Se l’Occidente ha compiuto la decisione più giusta nell’unirsi a difesa dell’Ucraina aggredita, si macchierebbe dell’errore più grave scegliendo di non alzare la voce a fianco di iraniani e russi in lotta contro i tiranni del XXI secolo. Che minacciano anche noi.