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La rivolta in Iran ha bisogno di un’organizzazione politica Analisi di Antonio Donno
“Dovunque andrà la protesta il nuovo Iran è già nato. Se lo sta caricando sulle spalle una generazione diversa da tutte le altre”. Così conclude il suo bellissimo articolo Tatiana Boutourline sul “foglio” di giovedì scorso, seguito da un secondo ieri. Boutourline ha ragione, ma il caricarsi sulle spalle il nuovo Iran non significa vincere la guerra contro un regime assassino. Tutt’altro. Il nuovo Iran vedrà la luce soltanto quando il regime sarà abbattuto. La novità, per ora, consiste nel fatto fondamentale che sta emergendo una nuova generazione di donne e uomini decisi a combattere i padroni dell’Iran non per ottenere modificazioni importanti sul piano delle libertà, come nel 2003, ma per cancellare definitivamente il sanguinario regime degli ayatollah. Nel 2003 si sperava che “la svolta sarebbe arrivata e sarebbe accaduto senza intrusioni occidentali, spinta da cittadini e leader illuminati”, scrive Boutourline. Fu un’illusione, perché, a partire dalla nascita del regime di Khomeini, una parte molto consistente della gioventù di quegli anni si schierò dalla parte dei rivoluzionari khomeinisti, che da allora, di generazione in generazione, hanno dominato la scena sociale iraniana, sottoponendo la popolazione a un regime terroristico.
Tanti anni di soprusi non sono passati invano. Dopo la morte recente di Mahsa Amini, la rivolta è scoppiata non solo nelle grandi città iraniane ma anche in numerosi centri periferici. È impossibile dire quanto durerà la ribellione di giovani donne e uomini, in considerazione della ferocia della repressione e se le vecchie generazioni assumeranno un atteggiamento di sostegno alla mobilitazione dei giovani iraniani o meno. La gravissima crisi economica ha messo in ginocchio l’intero Paese, creando un malcontento sempre più diffuso in tutti gli strati sociali meno abbienti. Nonostante questo, la ribellione sarà sedata con la violenza, come nelle occasioni precedenti, anche se lascerà uno strascico di sangue, che alimenterà una futura crisi sociale. L’esempio più vicino fu nel 2009, quando fu uccisa Neda Agha Soltan e la contestazione “a poco a poco [...] si spense [perché] non erano chiari gli obiettivi”, scrive ancora Boutourline.
Oggi gli obiettivi sono chiari? L’obiettivo finale è presente in tutti coloro che contestano il regime sanguinario che li schiaccia: la sua distruzione. Il problema fondamentale è come giungere a questo obiettivo. Finora le proteste hanno avuto il carattere della spontaneità e, per quanto sempre più diffuse e radicali, sono prive di un fattore fondamentale: l’organizzazione. La mancanza di un’organizzazione politica del malcontento e della ribellione è la ragione per la quale il regime ha avuto e continua ad avere il sopravvento sui dimostranti con la violenza tipica del fanatismo religioso, ma non solo. È, dunque, indispensabile che si crei clandestinamente un’organizzazione politica che agisca per unire e convogliare l’opposizione al regime secondo un programma che superi il momento della spontaneità, che viene regolarmente soffocata nel sangue, e punti a obiettivi valutati opportunamente di volta in volta, individuando le debolezze del regime sul territorio. Finora tutto ciò non è accaduto: questa è la causa – e sempre lo sarà – del fallimento delle proteste spontanee in Iran.
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