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L'Espresso Rassegna Stampa
03.03.2003 Come un titolo può cambiare il significato ad un'intervista
Un titolo e un sottotitolo che non corrispondono alle parole dell'ambasciatore israeliano presso la Santa Sede

Testata: L'Espresso
Data: 03 marzo 2003
Pagina: 89
Autore: Sandro Magister
Titolo: «Pace senza armi»
L'intervista all'ambasciatore israeliano presso la Santa Sede, Yosef Neville Lamdan, pubblicata su L'Espresso martedì 3 marzo 2003, è estremamente critica (seppur molto diplomatica) nei confronti dei rapporti tra Israele e la Santa Sede. Il titolo e il sottotitolo invece non rappresentano quanto detto dall'ambasciatore e presentano senza problemi i rapporti dei due paesi.
Ecco il testo dell'intervista. La sua lettura sarà utile per scrivere poi all'Espresso.

ROMA – L’incombente guerra all’Iraq non sembra aiutare l’armonia tra il Vaticano e Israele. L’ultima fiammata polemica l’ha accesa l’arcivescovo Renato Martino, presidente del pontificio consiglio della giustizia e della pace. In un’intervista al mensile "30 Giorni" diretto dal senatore Giulio Andreotti, ha detto che per sconfiggere il terrorismo internazionale non bisogna scatenargli contro una guerra, ma eliminarne «il vivaio». E ha citato la Terra Santa, dove tutto nasce da «promesse non mantenute», causa di «una grande delusione che non sempre si risolve in rassegnazione».

Ambasciatore Yosef Neville Lamdan, lei che rappresenta Israele presso la Santa Sede, che cosa risponde a simili critiche?

«Rispondo che Osama Bin Laden e altri, i quali si richiamano al conflitto israeliano-palestinese, lo fanno per pura strumentalizzazione. Non c’è un legame diretto tra il terrorismo internazionale che minaccia il mondo, del tipo di Al-Qaida, e il terrorismo palestinese. Questo colpisce civili e obiettivi israeliani ed ebraici in tutto il mondo. Ma per quanto terribili siano i suoi atti, non costituiscono minaccia di guerra mondiale».

E l’Iraq? Israele si sente direttamente sotto attacco?

«Una possibile guerra in Iraq non è la nostra guerra. Ma non dimentichiamo che nel 1991 Saddam Hussein lanciò i suoi Scud su Tel Aviv. E oggi detiene armi di distruzione di massa che potrebbero finire nelle mani di terroristi. Quindi prendiamo doverose precauzioni. In breve: preghiamo per il meglio e ci prepariamo al peggio».

Quanto vi sentite sostenuti dalla Chiesa cattolica?

«Sulla questione del terrorismo, ci dà un grande incoraggiamento la posizione adottata dal papa, specie nel suo messaggio per la giornata della pace del 1 gennaio 2002. Il papa ha detto che le ingiustizie nel mondo non possono mai essere usate come una scusante del terrore. Apprezziamo anche gli sforzi del Vaticano di tenere una posizione equilibrata nel conflitto. Però in concreto talvolta avvertiamo uno scarso riconoscimento dei dilemmi politici, militari e morali che Israele deve affrontare. E al contrario una certa tolleranza e permissività coi palestinesi, quando invece dal Vaticano ci aspetteremmo una più forte pressione morale su di essi».

Pensa che la Chiesa cattolica contrasti efficacemente le tendenze antisemite?

«Sfortunatamente no. Ci ha delusi negli ultimi due anni e mezzo il rifiuto del Vaticano di alzare la voce contro l’antisemitismo, nonostante glielo avessimo chiesto ai più alti livelli. La più clamorosa assenza di reazione è stata nel maggio del 2001, in occasione del viaggio di Giovanni Paolo II a Damasco, dopo la perfida e oltraggiosa invettiva antisemita pronunciata dal presidente siriano Assad di fronte al papa. Nessuno ha reagito. Sembra che il Vaticano tema, parlando, d’essere giudicato troppo dalla parte d’Israele, nel conflitto. E si giustifica dicendo che la sua condanna dell’antisemitismo è ben nota ed è stata reiterata da Giovanni Paolo II molte volte. Questo è vero. Ma se contro l’antisemitismo ci si vuole impegnare, ogni voce morale deve levarsi di nuovo ogni volta che c’è una esplosione di odio, perché il silenzio può essere mal compreso».

E sui silenzi addebitati a Pio XII? Come giudica gli ultimi atti vaticani in proposito, dall’apertura degli archivi alla beatificazione di quel papa?

«A nostro parere, nessun giudizio finale può essere dato sul comportamento di Pio XII durante la seconda guerra mondiale prima che gli archivi vaticani siano aperti ed esaminati fino a tutto quel periodo. E purtroppo il Vaticano non ha sinora mostrato la volontà di farlo. Lo scorso 15 febbraio ha aperto l’accesso a documenti che coprono l’attività di Eugenio Pacelli a Berlino e a Roma fino al 1939. Ma resta fuori la questione vera: che cosa ha fatto Pacelli, divenuto papa, in risposta ai rapporti sulla Shoah? Il giudizio resta quindi sospeso. Quanto alla beatificazione di Pio XII, è prerogativa assoluta della Chiesa creare i santi, e non spetta a chi è fuori prendere posizione. Ma viviamo in un’era di riconciliazione e di mutuo rispetto tra la Chiesa cattolica e gli ebrei. E quindi Israele, come parte del popolo ebraico, ha speranza e fiducia che il Vaticano terrà conto della sensibilità degli ebrei su questa delicata questione».

Nel conflitto israeliano-palestinese, come vede la posizione del Vaticano?

«In generale, negli ultimi anni, è stata coerente e ragionevole. Giovanni Paolo II, nel suo discorso del 13 gennaio al corpo diplomatico, l’ha riassunta in due punti. Il primo è che Israele e i palestinesi sono due popoli chiamati a vivere fianco a fianco, egualmente liberi; il secondo è che nessuna soluzione può essere imposta col terrorismo e le armi. Naturalmente, col Vaticano non siamo d’accordo in tutto. Ad esempio, non pensiamo che sia una soluzione efficace interporre una forza di monitoraggio internazionale tra Israele e i palestinesi. Ma non dubitiamo della buona fede della proposta e del fatto che sia motivata da un sincero desiderio di ridurre il terrore e il conflitto».

Con i palestinesi come si muove il Vaticano? E che ruolo svolge il patriarca di Gerrusalemme Michel Sabbah?

«Si deve distinguere tra la posizione ufficiale del Vaticano e quella fortemente partigiana di alcuni ecclesiastici mediorientali. Tra le Chiese d’Oriente molti non hanno accettato il fondamentale cambiamento intervenuto negli ultimi decenni nell’atteggiamento della Chiesa universale nei confronti degli ebrei come ‘fratelli maggiori’, in particolare col riconoscimento della permanente validità della promessa di Dio al popolo ebraico. Quanto al patriarca Sabbah, non credo che sia appropriato per me fare commenti. Ma risulta che anche nella curia vaticana si è consapevoli delle difficoltà poste da un uomo che sembra incapace di distinguere tra la religione e la politica, nel caso specifico la politica pro-palestinese».

La pace in Terra Santa su quali pilastri dovrebbe poggiare? Quali garanzie Israele ritiene irrinunciabili per la propria sicurezza?

«I pilastri fondamentali sono due. Il primo è la totale e incondizionata rinuncia al terrore. Il secondo è il riconoscimento del diritto di Israele ad esistere: un riconoscimento pieno, con tutte le sue implicazioni, non limitato come quello che sembriamo avere al presente. Quanto alle garanzie di sicurezza per Israele e alla natura delle soluzioni per i palestinesi, queste possono solo essere materia di negoziato diretto tra le due parti».

Su questi punti essenziali il Vaticano è d’accordo con voi?

«A livello strategico sì, specie quando il Vaticano sottolinea ripetutamente e con forza il diritto di Israele a esistere in sicurezza. Nello stesso tempo, però, abbiamo riserve su certe sue posizioni. Ad esempio, il Vaticano tende in questo periodo a invocare tutte le risoluzioni delle Nazioni Unite, quando invece le stesse parti in causa hanno concordato a Madrid che i negoziati di pace dovrebbero fondarsi su due risoluzioni del consiglio di sicurezza, la 242 e la 338, e basta. A livello tattico, va richiamato che il Vaticano, nell’accordo che ha stabilito le relazioni diplomatiche con Israele, si è ‘solennemente impegnato a rimanere estraneo a ogni conflitto puramente temporale, principio che si applica specificamente a territori disputati e a confini non determinati’».

Per Gerusalemme il Vaticano propone da tempo uno statuto internazionale. Come giudicate la proposta?

«La posizione del Vaticano, almeno dal 1968, è condensata in queste quattro parole in inglese: ‘special statute, internationally guaranteed’. Ci sono stati piccoli mutamenti nella formulazione; talvolta negli ultimi due anni è parsa restringersi solo ai luoghi più santi. Il problema, dal nostro punto di vista, è che il Vaticano non ha mai esplicitato le modalità della sua posizione. A quali luoghi santi si riferisce, cristiani, musulmani, ebraici? E che cosa vuol dire ‘statuto speciale’? E chi darebbe le garanzie internazionali? Il consiglio di sicurezza dell’Onu con i russi e i cinesi? Un insieme di stati con interessi nei luoghi santi di Gerusalemme? E quale la natura delle garanzie? Nell’estate del 2000, dopo i colloqui di Camp David, suggerimmo di aprire colloqui informali con il Vaticano, per meglio capire. Ma i colloqui non sono mai cominciati, anche se questa proposta è ancora valida».

Sul terreno religioso, fa passi avanti il dialogo tra ebraismo e cristianesimo?

«I progressi sono considerevoli e positivi. Il mese prossimo ci sarà un dialogo a Parigi su scala europea. E per quanto riguarda il dialogo bilaterale tra Israele e il Vaticano, questa settimana c’è stato a Roma il primo incontro con una rappresentanza di capi rabbini di Israele, per tre giorni di colloqui. Un evento storico».

È la prima volta che è accaduto?

«Sì. C’è stato un incontro preliminare a Gerusalemme lo scorso giugno, per esplorarne la possibilità. I capi rabbini sono arrivati a Roma da tre diverse città di Israele. Per il Vaticano ha presieduto il gruppo il cardinale Jorge María Mejía».

E con l’Islam c’è dialogo?

«Di contatti ve ne sono. Il maggiore è stato un anno fa, ad Alessandria d’Egitto. L’iniziativa era dell’arcivescovo anglicano di Canterbury e tra i presenti c’erano rappresentanti religiosi di Israele e palestinesi. Il Vaticano ha salutato la dichiarazione finale con una sua approvazione».

Col Vaticano sono quasi dieci anni che Israele ha stabilito rapporti diplomatici. Che bilancio ne trae?

«Sono rapporti complessi, che toccano punti delicati per entrambe le parti. Gli ultimi due anni non sono stati sempre facili, specie per l’Intifada scoppiata nel settembre 2000. Ma a dispetto delle difficoltà, entrambe le parti sono state capaci di tenere sempre aperte le linee di comunicazione, anche se, come ambasciatore attento ai termini pratici, devo dire che queste relazioni sono state un po’ vuote di sostanza concreta. Ed è proprio di più sostanza che vorrei nutrirle, in quest’anno che è il decimo dalla firma dell’accordo, avvenuta il 30 dicembre 1993. E penso che anche il Vaticano lo voglia».
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