Quando Israele divenne un modello positivo per gli stati arabi
Analisi di David M. Weinberg
(da Israele.net)
David M. Weinberg
La firma degli Accordi Abramo
Il bello degli Accordi di Abramo è che sono caratterizzati da una calorosa amicizia, sostenuta da un discorso di genuina tolleranza e moderazione ideologica. Il che è persino più importante del fiorire di scambi commerciali e delle straordinarie relazioni nella difesa instaurate con Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco. Nelle mie svariate visite nel Golfo, i miei interlocutori arabi hanno sempre sottolineato che ciò a cui mirano è nientemeno che ridefinire l’identità e l’immagine globale degli arabi musulmani, aggiungendo che vedono nell’amalgama di tradizione e modernità rappresentato da Israele un modello da seguire. Soffermiamoci su questo concetto: Israele come modello per la modernizzazione delle società arabe moderate. Cosa ci può essere di più gratificante e incoraggiante per uno come me, ebreo e israeliano? Alla base di questo sviluppo c’è la somiglianza delle nostre società. La società israeliana e le società di Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco hanno a cuore le proprie forti identità etniche, culturali e religiose, apprezzando al contempo la modernità. Sostengono contemporaneamente un fiero sentimento patriottico e un approccio di larghe vedute all’istruzione avanzata, alla fratellanza internazionale, alla cooperazione regionale. Ma fondere tradizione e modernità è un compito complicato, con il quale Israele si è cimentato con relativo successo. Ed ecco che ora i partner arabi degli Accordi di Abramo vogliono fare tesoro dell’esempio di Israele. Per me, questa evoluzione è come un turbine di manna della pace, una svolta ideologica di portata quasi biblica. In effetti, gli Accordi di Abramo rappresentano una felice rivoluzione che capovolge intere generazioni di delegittimazione ideologica araba e islamica di Israele. Costituiscono una secca sconfessione della perdurante campagna palestinese volta a negare la storia ebraica e a criminalizzare Israele nelle istituzioni internazionali. Naturalmente non mancano gli eterni scontenti che continuano a liquidare gli Accordi di Abramo come un prodotto della stravaganza trumpiana finalizzato soltanto a ottenere contratti di armi e qualche contropartita diplomatica. Continuano a sostenere che gli Accordi avranno vita breve e che sono destinati a disgregarsi sotto la pressione iraniana e nel disinteresse occidentale. Io dico che questa è una lettura completamente errata dell’impegno assunto da Emirati, Bahrein e Marocco verso la ricerca della pace con Israele. Gli Accordi di Abramo sono profondamente radicati in autentici propositi ideologici (oltre che in reali urgenze di sicurezza) e sono ancorati a lungo termine. È vero che in un evento tenuto a settembre all’Atlantic Council di Washington per celebrare il secondo anniversario degli Accordi di Abramo, l’ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti negli Stati Uniti Yousef Al Otaiba (uno degli artefici chiave degli Accordi) ha definito i palestinesi “l’elefante nella stanza” e ha esortato i firmatari degli Accordi a fare di più per promuovere una soluzione a due stati. “Gli accordi non avevano lo scopo di risolvere il conflitto israelo-palestinese – ha affermato – ma mirano a procurare spazio e tempo per dare modo alla diplomazia di occuparsi della soluzione dei due stati”. E’ fuori discussione che un accordo israelo-palestinese sarebbe positivo per tutte le parti. In effetti, tutti speravano che i dirigenti palestinesi cogliessero al volo l’indicazione degli Accordi di Abramo, rendendosi conto che è irrevocabilmente giunto il momento di scendere a compromessi con Israele. Vi sono oggi così tanti nuovi forum regionali su forniture di gas, cooperazione idrica, progetti ambientali, turismo e difesa a cui i palestinesi potrebbero unirsi con loro enorme vantaggio. Gli Accordi di Abramo non “marginalizzerebbero” affatto i palestinesi se i palestinesi non si marginalizzassero da sé. Ma i dirigenti arabi sapevano sin da prima di firmare gli Accordi di Abramo che l’attuale leadership palestinese è lontana anni luce dall’essere pronta a scendere a compromessi e cooperare con Israele. Sapevano in anticipo, e certamente lo sanno ancora di più due anni dopo, che Abu Mazen e i suoi compari, per non dire dei caporioni di Hamas a Gaza, si sono rinchiusi in un apocalittico circolo vizioso distruttivo, votati come sono sia alla distruzione di Israele che alla caparbia autodistruzione del popolo palestinese. Se Israele sta fronteggiando un’ennesima ondata di terrorismo palestinese non è a causa di “azioni provocatorie” da parte israeliana né per via della fantomatica “mancanza di un orizzonte politico per i palestinesi” (che esiste da decenni). E’ perché uccidere israeliani è nel Dna del movimento nazionale palestinese, già evidente cinquant’anni fa nel massacro delle Olimpiadi di Monaco del 1972. E nonostante il processo di pace di Oslo, i capi palestinesi non sono andati molto al di là di questo. Inoltre, la deleteria dinamica della rivalità fra Fatah e Hamas – ovvero, la totale disfunzionalità e corruzione della scena politica palestinese – spinge verso un estremismo sempre più spinto, con le due fazioni che fanno a gara in fatto di pratiche anti-israeliane e antisemite. La conclusione è che aspettare che i palestinesi aprano gli occhi è un gioco perdente, e i paesi dell’Accordo di Abramo sono troppo scaltri per continuare a stare a questo gioco. Il gioco vincente consiste invece nel coltivare la natura migliore dei popoli attraverso partnership culturali e commerciali e tutta una serie di pacifiche connessioni. Il gioco vincente rafforza ogni parte e allo stesso tempo consolida le infrastrutture regionali della pace e della prosperità in Medio Oriente.
(Da: Israel HaYom, 18.9.22)