Iran: la nostra imperdonabile rassegnazione Analisi di Tatiana Boutourline
Testata: Il Foglio Data: 24 settembre 2022 Pagina: 15 Autore: Tatiana Boutourline Titolo: «Il peso del coraggio in Iran e la nostra imperdonabile rassegnazione»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 24/09/2022, a pag.15 con il titolo 'Il peso del coraggio in Iran e la nostra imperdonabile rassegnazione' l'analisi di Tatiana Boutourline.
Tatiana Boutourline
Mahsa Amini
Roma. Cinquanta chili o poco più, è questo il peso del coraggio in Iran e si direbbe un peso da niente, se non fosse che nei giorni di rivolta che stanno scuotendo l’Iran è proprio questo il fardello che opprime la nomenklatura khomeinista, il peso piuma di giovani donne che ballano e ridono e muoiono con i capelli al vento. Fanno così paura che chi racconta le loro storie viene arrestato, poiché non c’è bisogno di manifestare per finire nei guai in queste ore a Teheran, è sufficiente ripetere i loro nomi, pubblicare i loro volti. E’ accaduto alla giornalista Nilufar Hamedi, che ha descritto l’orrore subìto dalla ventiduenne Mahsa Amini, e alla fotografa Yalda Moayeri, che ha documentato lo strazio dei suoi genitori nel corridoio asettico di un ospedale. E sta succedendo lo stesso a chi parla della morte di Hannaneh Kia a Nowshahr, o di Ghazale Chelavi ad Amol. Fanno così paura queste ragazze che le autorità offrono laute ricompense alle famiglie che le piangono in cambio del silenzio. Fanno paura al punto che ieri è stato mobilitato l’esercito: polizia, milizie bassiji e pasdaran evidentemente non bastavano. Nel frattempo è stata organizzata una contromanifestazione pro regime ad Isfahan, per l’ennesima volta i collegamenti internet sono stati interrotti e i social network sono rimasti inaccessibili per gran parte della giornata. Fa così paura il coraggio delle ragazze iraniane che il mondo si è accorto di loro. Ha imparato il nome di Mahsa Amini, la “mal velata” arrestata il 13 settembre e deceduta a seguito delle percosse il 16, e l’ha trasformata in un hashtag popolarissimo da compulsare, e intanto fioccano le dichiarazioni accorate e la stampa internazionale si indigna e si commuove, anche in maggior misura di quello che è accaduto in occasione di altre ribellioni, perché è difficile immaginare una piazza più fotogenica, una piazza più struggente, intensa e vitale di quella in cui una giovane donna sfida un fucile agitando i capelli nel vento. Sotto sotto però gli analisti alzano e riabbassano le spalle. E sembra di sentire il suono dei loro pensieri, la rassegnazione di quando si dicono: poverine le schiacceranno come mosche. Perché li abbiamo già sentiti. “Sono solo studenti”: era il ’99 e quelli che manifestavano erano universitari; “sono solo monarchici” hanno detto nel 2003; “sono solo borghesi”, hanno alzato le spalle nel 2009; “sono solo i nuovi poveri esasperati dal carovita”, nel 2017 e nel 2018 e così nel 2019 e nel 2020. “Sono solo infermiere, solo operai, solo conducenti d’autobus, solo pensionati, solo ambientalisti, solo contadini”.
Possibile? Centinaia di migliaia di morti che suscitano solo rassegnazione. Rassegnazione, cliché e viltà. Quella iraniana è una protesta acefala, vincerà la repressione, perché la rivolta non esprime leader carismatici e perché la sproporzione delle forze in campo è schiacciante, non lo vedete? Vincerà la repressione, quindi meglio non esagerare, conteniamo i mullah, agganciamoli a qualche negoziato, che sia sul nucleare o altro. Perché nelle cancellerie occidentali tutti gli occhi sono puntati su Mosca e su Kyiv e nessuno si augura l’ennesimo sconquasso, a maggior ragione in quello che è spesso definito come il vicinato più pericoloso del mondo. “Non è il momento”, sussurrano in troppi senza il coraggio di confessare che ai tempi del senso di colpa collettivo e degli estenuanti dibattiti sull’identity-politics temono di spendersi per valori che in troppi hanno paura a definire universali. Non sia mai che li definiscano islamofobi. Solo in Iran si seguita a credere. Credono in un futuro diverso le ragazze peso-piuma che sfidano la polizia morale e ci credono i loro padri e i fratelli, i mariti e gli amanti. Ci credono e gettano benzina sull’asfalto per far sbandare le motociclette dei miliziani, ci credono e assaltano le volanti che sparano, ci credono e strappano i manifesti di Ebrahim Raisi, picconano le statue di Ali Khamenei e i murales in onore di Qassem Suleimani. Ci credono perché la Repubblica islamica non impara dai suoi errori, è diventata una cricca di bande che sanno solo distruggere. Le ragazze lo sanno e combattono lo stesso, a mani nude, con i capelli al vento, combattono gridando “donna, vita, libertà”. Lo fanno perché il cambiamento pare sempre impossibile fino a un attimo prima di diventare inevitabile, perché come ha ricordato ieri la giornalista della Bbc Sima Sabet: “Le prigioni del regime non sono grandi abbastanza da contenere ottanta milioni di iraniani”.
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