Testata: La Stampa Data: 21 settembre 2022 Pagina: 3 Autore: Anna Zafesova Titolo: «Se annunciare la fine del mondo è troppo anche per lo Zar»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/09/2022, a pag. 3, con il titolo "Se annunciare la fine del mondo è troppo anche per lo Zar", l'analisi di Anna Zafesova.
Anna Zafesova
Vladimir Putin
L'Apocalisse viene rinviata, «andate a dormire», scrive sul suo canale Telegram Margarita Simonyan, la capa della tv di propaganda Rt che soltanto poche ore prima annunciava trionfante «l'inizio della nostra rapida vittoria, o della guerra nucleare, non vedo una terza opzione». La scelta tra la guerra totale con chiamata alle armi dei russi e la bomba atomica si è rivelata troppo difficile, come dimostrano le due ore di angosciata e inutile attesa di un discorso di Vladimir Putin che doveva annunciare la fine del mondo. Il portavoce del presidente Dmitry Peskov si rende irreperibile per i giornalisti, nei social russi girano ironici filmati del Lago dei cigni, il balletto trasmesso dalla tv sovietica durante il golpe contro Mikhail Gorbaciov nel 1991, la borsa di Mosca collassa, le vendite di biglietti aerei online registrano il tutto esaurito e la classifica delle ricerche nel segmento russofono di Google viene scalata dalle domande «come scappare dalla Russia?» e «come evitare la chiamata in guerra?». Il risultato è che proprio nel giorno in cui il leader russo voleva mostrare di essere tornato l'uomo che non deve chiedere mai dal Cremlino partono messaggi di divisioni e tentennamenti: «Non è questo il modo per annunciare la mobilitazione generale», riassume l'analista di opposizione Yulia Latynina. La sensazione, negli ultimi giorni, era quella di una palla di neve che stava crescendo a vista d'occhio, mentre rotolava a valle accelerando la sua corsa. Prima, la controffensiva travolgente degli ucraini a Kharkiv e nel Donbass. Poi, l'ondata di indignazione che la perdita dei territori già occupati dai russi ha provocato nei ranghi dei nazional-imperialisti, per la prima volta in 23 anni di putinismo arrabbiati al punto da aver cominciato a chiedere la testa del loro leader. La presa di posizione pubblica contro la guerra di Alla Pugaciova - la famosissima cantante che per milioni di russi simboleggia il rimpianto per l'Unione Sovietica molto più del presidente – è suonata come una condanna dall'altro fronte putiniano, quello della maggioranza silenziosa apatica e nostalgica, pronta ad applaudire l'invasione dell'Ucraina solo fino a che la vede in tv. Lo scontro all'interno del gruppo dirigente putiniano, sempre più evidente, come lo scontento dei militari, mentre l'ex Armata Rossa stava ormai reclutando soldati tra gli assassini e gli stupratori nelle carceri. La freddezza di Xi Jinping, di Recep Tayyip Erdogan e del presidente kazakho Kasym-Zhomart Tokaev al vertice asiatico di Samarcanda ha ristretto lo spazio di manovra internazionale di Putin, insieme alle crisi in Iran e nel Caucaso. La guerra stava diventando palesemente impossibile da proseguire, in assenza di risorse umane, economiche e politiche, ed è altrettanto impossibile da interrompere, in un sistema troppo monarchico per perdonare al leader massimo un errore, peggio, una sconfitta. È questo il dilemma atroce del Cremlino, e l'accelerazione vertiginosa del doppio programma dei "referendum" sull'annessione dei territori ucraini occupati e delle nuove leggi sulla mobilitazione e la legge marziale - che sul sito della Duma risultano già approvate, nonostante debbano ancora venire votate dal Senato e firmate dal presidente - significano che Putin ha optato per l'escalation. Una decisione non troppo sorprendente: il presidente russo non ha mai imparato l'arte politica del compromesso, e ha un culto della forza che associa all'inflessibilità e alla violenza. Il partito della guerra domina il Cremlino ormai da mesi, e la sua visione del mondo è stata riassunta di recente dalla solita Simonyan, che ha spiegato in un talk show che «se facciamo marcia indietro nessun'altro la farà, se noi non facciamo marcia indietro qualcun altro potrebbe farla». Nella teoria dei giochi si chiama il "chicken game", il gioco del pollo, la scommessa che chi non cede vince. Una tattica che ha già portato una volta l'umanità sull'orlo della catastrofe nucleare, durante la crisi di Cuba. Il problema per Putin è che non ha le risorse per quella guerra "patriottica" totale che i suoi falchi gli stanno chiedendo: non riusciva a trovare soldati per il fronte ucraino nemmeno in cambio di migliaia di rubli e grazie a pluriomicidi, difficile che i russi ora vogliano andare nelle trincee gratis, per difendere dei "nuovi territori" che toglierebbero miliardi di finanziamenti a pensioni e ospedali. L'inefficienza mostruosa dell'esercito russo non promette miracoli strategici, e le potenziali vittime del reclutamento si rendono conto che verrebbero usati nella classica guerra sovietica che prevede di sommergere l'avversario in un mare di corpi. Inoltre, i primi a venire mobilitati sarebbero gli under 26, una generazione che al Cremlino non dispiacerebbe mandare al macello: anche se non portasse la vittoria militare, eliminerebbe la fascia d'età più critica della guerra, dove il sostegno a Putin è al minimo. I loro genitori però sono la base del regime, e il loro consenso rassegnato potrebbe venire sostituito da un'esplosione di rabbia. Queste ore offrono ai russi comuni l'ultima possibilità per far sentire la propria voce, prima di quella che potrebbe diventare una catastrofe.
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