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La Stampa Rassegna Stampa
26.02.2003 Ulivi per ricordare
Un articolo che fa riflettere profondamente sul valore della memoria e sull’importanza che essa riveste nella vita e nella morte di un uomo.

Testata: La Stampa
Data: 26 febbraio 2003
Pagina: 24
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «All´ombra del Giardino dei Giusti»
Riportiamo un articolo di Elena Loewenthal pubblicato su La Stampa mercoledì 26 febbraio 2003.
La memoria si nutre, il più delle volte, di ciò che s'è perduto e non si avrà più: si torna indietro nel tempo armati soltanto della disillusione, cioè il contrario del sogno. Ricordare significa confrontarsi con l'irraggiungibilità del passato, che sia trascorso da un secolo o da qualche istante appena: è una dichiarazione di distanza - ricordiamo perché non siamo più lì, nel bene e nel male. Ma c'è anche un altro genere di memoria, in un certo senso opposta: è ricordo non di vita trascorsa, quanto di quel momento del passato cui si deve la vita. Senza il quale la memoria sarebbe rimasta muta. «Chi salva una vita salva il mondo intero», ha detto un maestro della tradizione ebraica tanti secoli fa, e solo chi deve la propria vita al gesto di un altro sa quanto è vera questa frase. C'è una ragione psicologica per cui a tanti anni di distanza emergono ancora dall'abisso della Shoah «nuove» storie di salvati, spiega con compostezza commossa Mordecai Paldiel. È il direttore del dipartimento «Giusti fra le Nazioni» all'interno dello Yad Vashem di Gerusalemme, il memoriale dello sterminio: grazie a padre Simon Gallay la sua famiglia poté fuggire dalla Francia occupata dai nazisti e rifugiarsi in Svizzera. «Le persone invecchiano - prosegue Paldiel - si rendono conto che non vivranno per sempre, e pensano a ciò che resta loro ancora da rimediare. Così, a volte con frenesia, desiderano esprimere gratitudine a coloro che li hanno salvati durante la Shoah, e arrivano al nostro ufficio». Il suo dipartimento non governa un archivio, né pile di scartoffie, ma un viale e un giardino di alberi. All'inizio erano carrubi, piante tenaci come il deserto che s'intravede in lontananza. Poi furono ulivi: ognuno porta il nome e il cognome di una persona che durante la guerra e gli anni dello sterminio nazista salvò la vita di un ebreo. O tanti. Strappati al destino del numero tatuato sul braccio prima della camera a gas, delle fucilazioni di massa. Sono migliaia, questi alberi, più di trecento portano nomi italiani. Alcune storie sono narrate nel libro di Peter Hellman, L'albero dei Giusti. Storie di ebrei sottratti all'Olocausto (edizioni San Paolo). L'ebraico ha un suo orientamento del tempo, opposto a quello dell'italiano: nella lingua della Bibbia, infatti, il passato sta davanti, e per contro si voltano le spalle al futuro. Al viale dei Giusti sulla collina a Gerusalemme, che è in fondo l'emblema di questo modo di guardare il passato, è dedicata un'opera monumentale appena uscita negli Stati Uniti dal titolo The Righteous (Henry Holt, New York, $ 35,00). L'ha scritta Martin Gilbert, uno dei maggiori storici inglesi, ed è il frutto di venticinque anni di lavoro: vi si trova la storia di chi ha tratto in salvo migliaia di ebrei, ma anche di quel vecchio che non esitò a regalare un paio di provvidenziali scarpe. Gilbert racconta di avere maturato l'idea di questo studio nel 1974, ai funerali di Oskar Schindler. Nella sua lista - cui il film di Steven Spielberg ha dato un'inattesa celebrità - c'era anche Moshe Bejski: la sua è, come quella di tanti altri sopravvissuti, una storia un po' tremenda e un po' rocambolesca. Come tanti altri, anch'egli deve la vita a questo tedesco dissoluto e sgarbato che assoldava ebrei per strapparli alla morte. Poi è salito in terra d'Israele, è diventato giudice. Il processo Eichmann è stato anche per lui il trauma di una memoria che credeva cucita per sempre dentro di sé e che invece tornò fuori con un'irruenza devastante: «Dopo diciotto anni io non posso più descrivere quella sensazione di paura... impediva agli uomini che si trovavano sotto la minaccia dei poliziotti con le mitragliatrici in mano di avere la benché minima reazione mentre assistevamo all'impiccagione di quel ragazzo, alle sue grida». Il tempo, implacabile, rende tutto troppo semplice, dice Bejiski fra le pagine del libro che ne racconta la vita: Il tribunale del bene. La storia di Moshe Bejski, l'uomo che creò il Giardino dei Giusti (Mondadori, pp. 336, euro 18,00). L'ha scritto, con passione, Gabriele Nissim: il volume sarà presentato a Roma domani, alla Camera dei Deputati, da Pier Ferdinando Casini, Avraham Burg, presidente della Knesset - il Parlamento israeliano -, Amos Luzzatto, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, e Paolo Gambescia. Oltre all'autore, sarà presente il protagonista. Per il quale il senso della vita non è una costruzione astratta, ma il frutto di un'esperienza che l'ha posto di fronte a un dovere inderogabile: quello di ricordare il bene, oltre al male. E di aiutare gli altri a fare lo stesso. Il più delle volte, infatti, questi «giusti fra le nazioni» che rischiarono la vita per salvare degli ebrei, rispondono con una banalità disarmante alla domanda «come mai l'avete fatto?»: chiunque al mio posto avrebbe fatto l'ho stesso, non avrei potuto far altro. Rischiando la propria vita stessa e nell'incertezza più totale del futuro, come avviene in ogni tempo di guerra. La storia ha dimostrato innumerevoli volte che si poteva fare il contrario, che farsi complici del male è semplice, comodo, persino istintivo. La storia di Moshe Bejski e del viale dei Giusti di Gerusalemme non è soltanto un tributo di riconoscenza: la memoria del bene, lungo il viale alberato e le pagine scritte, è in fondo metafora universale dell'uomo che si assume una responsabilità verso l'altro, e con ciò sceglie la vita, propria e altrui.
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