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La Repubblica Rassegna Stampa
12.09.2022 Il Kurdistan senza pace
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 12 settembre 2022
Pagina: 24
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Il Kurdistan senza pace»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 12/09/2022, a pag. 24, con il titolo "Il Kurdistan senza pace", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

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Bernard-Henri Lévy

La prossima vittima della guerra in Ucraina sarà il popolo curdo? Non parlo dei curdi di Iran e Turchia, il cui livello di persecuzione, da quando l’Occidente guarda altrove, è salito di una tacca. Né dei curdi del Rojava, che il criminale di guerra Erdogan, forte dei suoi presunti buoni uffici nella crisi del grano ucraino, chiede (a Teheran, a Mosca…) di poter massacrare ancora un po’. Parlo dei peshmerga , i curdi iracheni, ai quali ho dedicato due dei miei film, che ho visto combattere contro l’idra islamista con un eroismo pari solo a quello degli ucraini e che ancora una volta stiamo abbandonando. Che cosa succede a Erbil?

***

Who Are the Kurds?

Daesh è tornato. Rialza la testa a Sulaymaniyya. Riprende posizione nelle grotte e nei passaggi sotterranei dei monti Qarachok. Mette alla prova tutti i giorni, lungo il vecchio fronte del Settore 6, nei dintorni di Gwer, le capacità di resistenza del generale Sirwan Barzani. E tutto ciò senza che gli alleati dei curdi, europei o americani che siano, si rendano conto del pericolo. È ingratitudine? O la pessima abitudine, in democrazia, di gettare gli alleati dopo l’uso? Oppure solo incredulità di fronte a una minaccia troppo terrificante per poterla immaginare? Se si tratta di incredulità, ecco ilmessaggio di uno dei fondatori, assieme a Thomas S. Kaplan, della Ong americana Justice For Kurds (JFK), che dispone di fonti credibili: Daesh non è un tumore estirpabile, è mercurio nero, un argento vivo lugubre e trismegisto, un gas invisibile che evapora, resta in sospensione e non chiede di meglio, se i suoi avversari abbassano la guardia, che precipitare nuovamente. Ed è lì, nel Kurdistan iracheno, che sta per succedere. L’Iran regge le fila. Sveglia gli agenti dormienti nella zona. Galvanizza le milizie sciite al soldo delle Forze di mobilitazione popolare e, in certi casi, persino delle unità di Guardiani della rivoluzione. Lancia razzi sulle zone raggiungibili dalla piana di Ninive e, già diverse volte quest’anno, fino ai sobborghi di Erbil e intorno al suo aeroporto. E tutto, di nuovo, senza che gli alleati del Kurdistan si preoccupino di dare un senso a quei segnali: odio per l’eccezione curda? Volontà di sabotare un’esperienza democratica di cui, come Putin con l’Ucraina, si teme lo splendore? Oppure si tratta, come Putin, che calza ancora gli stivali troppo grandi per lui degli zar della Santa Russia, come Xi Jinping che ravviva, da Taiwan all’Africa, passando per le nuove vie della seta, le ceneri degli antichi imperi Han, Ming e Qing, o come Erdogan che tenta di resuscitare l’impero Ottomano defunto, di un manipolo di ayatollah che si credono eredi di una Grande Persia estesa almeno fino a Bagdad? Tutte e tre le ipotesi sono vere. E io, inL’Empire et les cinq rois ,ho spiegato perché questa è la sfida principale che attende le generazioni future. ** *Questo Kurdistan, per il diritto internazionale, dopola prima guerra del Golfo e l’inizio della fine di Saddam Hussein, è solo il Krg, ovvero una delle entità costitutive dell’Iraq moderno. Ora, su pressione, giustamente, dell’Iran, l’Iraq lavora da mesi e persino da anni per indebolire, umiliare e infine strangolare questa “regione autonoma” curda dotata di una sovranità purtroppo limitata. Dal 2014, la quota di budget federale destinata a questa regione è bloccata. A trentamila peshmerga non viene versata la paga; la si lascia, anno dopo anno, alla buona volontà dell’amministrazione americana. E ancora, si vieta loro l’esportazione e lo sfruttamento del petrolio, vitale per la regione, a cui si finge che non abbiano diritto in virtù di una lettura fallace di tre articoli della costituzione federale (gli articoli 110, 111 e 112). E gli alleati non dicono niente. O poco. E senza la vigilanza di un gruppo bipartisan di rappresentanti e senatori americani che, assieme a Michael Waltz, Dina Titus, Jim Risch, Doug Lamborn, Michael McCaul o Bob Menendez, suonano regolarmente l’allarme, i curdi sarebbero tornati da tempo all’epoca delle montagne. Vista la situazione, le soluzioni sono due. O gli Stati Uniti non sanno più contare fino a due e ritengono che, nella guerra mondiale dichiarata loro dal blocco delle potenze autoritarie e neoimperialiste indicato da Macron durante la Conferenza degli ambasciatori, non possono impegnarsi su più di un fronte alla volta, e quindi Erbil si deve preparare a fare la fine di Kabul. Oppure si rendono conto che il petrolio e il gas curdi sono una delle più serie alternative al petrolio e al gas russo; comprendono che, come ai tempi in cui erano il nostro baluardo contro Daesh, ora i curdi sono il nostro scudo contro il ricatto energetico messo in atto da Putin e il caos che ne consegue; si ricordano, en passant , di quegli antichi, che i loro padri fondatori conoscevano a memoria, secondo i quali la geopolitica, quando si è Atene o Roma, è l’arte di vedere il mondo “come se fosse un’unica città”, e capiscono quindi che a Kiev e a Erbil si sta giocando una stessa partita.
Traduzione di Alessandra Neve

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