Theodor Herzl, un modello per la politica Commento di Elena Loewenthal
Testata: La Stampa Data: 30 agosto 2022 Pagina: 31 Autore: Elena Loewenthal Titolo: «La politica deve imparare a sognare: la ricetta di Herzl e Freud»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/08/2022, a pag.31, con il titolo 'La politica deve imparare a sognare: la ricetta di Herzl e Freud', l'analisi di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
Theodor Herzl
Abitavano nella stessa via di Vienna, erano praticamente coetanei, avevano la stessa lingua materna – il tedesco – e gli stessi codici culturali. Due vite parallele che non si sono mai incrociate fisicamente eppure facevano parte dello stesso, piccolo o grande che lo si consideri, mondo. Sigmund Freud (1856-1939), padre della psicoanalisi e Theodor Herzl (1860-1904), fondatore del sionismo, hanno entrambi, ciascuno a suo modo, cambiato il mondo. «Se lo volete, non sarà un sogno», ripeteva Herzl al popolo ebraico: la riconquista dell'autonomia politica, la fine del destino di erranza, di secoli di emarginazione e persecuzioni sono diventati, grazie a questo visionario pragmatico nato a Budapest in una famiglia della buona borghesia ebraica assimilata, un progetto politico, la costruzione di un movimento risorgimentale tutto particolare. Herzl scoprì la necessità di uno stato ebraico mentre seguiva da giornalista per la Neue Freie Press l'infame processo Dreyfus. Freud, quando un suo paziente gli chiese lumi sull'eventualità di fare entrare suo figlio neonato nel patto di Abramo attraverso il rito della circoncisione, rispose che l'ebraismo è e resta un sistema di valori, la cui rinuncia rappresenta comunque una diminutio anche nel contesto di una modernità sempre più laica. Non si sono mai incontrati di persona, questi due grandi. Però oggi, a 125 anni di distanza, dagli Archivi Centrali Sionistici di Gerusalemme, affiora una testimonianza preziosa, toccante: una lettera che Freud inviò a Herzl, datata 28 settembre 1902. L'unico contatto diretto fra di loro, all'indomani del Quinto Congresso Sionistico di Basilea, tenutosi alla fine di agosto: a 125 anni esatti di distanza le celebrazioni di quest'anno vedranno anche la partecipazione del presidente dello stato d'Israele, Isaac Herzog. C'è tutta la asciutta etichetta di quei tempi, nelle parole di Freud: «Stimato dottor Herzl», gli si rivolge per comunicargli che si è permesso di mandargli copia del suo libro Interpretazione dei sogni, su consiglio del suo editore nonché collega del dottor Herz, oltre a un breve altro saggio sul tema. «Non so se vi troverete d'accordo con il dottor M. a tale proposito - prosegue Freud - ma vi prego di considerare questo mio gesto come un segno della stima che al pari di molti altri nutro per il poeta e combattente per i diritti umani del nostro popolo». Quanta storia, quanta realtà, quanto destino c'è in queste poche righe. C'è, prima di tutto, l'evidenza che Freud guardava al movimento politico volto alla creazione di uno stato ebraico con curiosità tanto assidua quanto partecipata. Al pari di Herzl, morto appena quarantenne di lì a due anni, anche Freud non fece in tempo a vedere la nascita di Israele (1948) e nemmeno la risoluzione ONU che il 27 novembre dell'anno precedente aveva sancito la creazione di due stati palestinesi nella regione, uno arabo e uno ebraico. Ma in queste sue parole e soprattutto nel gesto che accompagnano, c'è la percezione perfetta di quello che era (e in fondo è ancora) il sionismo: un movimento risorgimentale volto a strappare la condizione ebraica dalla diaspora, a sanarne la dolorosa anomalia, partendo dall'evidenza che senza una normalità il popolo d'Israele resta condannato all'emarginazione e a un inguaribile antisemitismo. Come aveva drammaticamente dimostrato a Herzl l'esito del processo a carico dell'innocente eppur condannato ufficiale francese Alfred Dreyfus. Da quel momento in poi, la parabola politica ed esistenziale di Herzl e del sionismo stesso, che a partire dal 1897 si costruisce attraverso dei congressi annuali, è proprio così come la vede e apprezza Freud: pragmatismo e delicata, a volte persino un po' spregiudicata attività diplomatica (Herzl chiede udienza a mezzo mondo e più, per perorare la causa del focolare nazionale ebraico), accanto a una forza visionaria straordinaria, capace di lottare contro tutto e tutti. Mentre Herzl insegue il sogno, nell'anno in cui Freud gli manda il suo libro, il Fondo Nazionale emette il primo francobollo ebraico della storia. Mentre costruisce l'utopia di uno stato nuovo e vecchio (Altneuland è il titolo del suo libro uscito sempre nel 1902, una sorta di visione costruttiva di una «vecchia/nuova terra»), Herzl definisce i tratti istituzionali di quello che dovrà essere il futuro Israele. Freud segue questo processo creativo con attenzione ed empatia e di più: lo sente proprio. Tanto da azzardare quella che sembra solo una provocazione, ma non lo è affatto. Perché, come sapevano bene entrambi, il sogno deve far parte della politica. E se non pensa in grande, se non immagina il futuro spingendo l'orizzonte sempre più in là, la politica non è che un esercizio fine a se stesso. No, non c'è nulla di ironico nel gesto di Freud, nel suo sentire il bisogno di mettere Herzl di fronte alla coscienza del proprio sogno. C'è piuttosto un'idea alta, profonda ed esaltante della missione civile, che non può fare a meno del sogno, di tenere cioè i piedi per terra ma lo sguardo verso l'alto, verso ciò che appare come irrealizzabile e che proprio per questo bisogna inseguire sempre. Sembra così fuori dal mondo questa corrispondenza – non tanto epistolare quanto di anime – fra Herzl e Freud. Nei toni, nella cortesia formale, persino nella lingua che era per entrambi la patria culturale, quel tedesco che di lì a qualche anno sarebbe stato la voce della ferocia nazista. Eppure c'è qualcosa di così attuale e necessario nell'invocare il sogno, nel chiamarlo dentro la realtà, nello slancio a pensare sempre oltre. A ben pensarci, quanto avremmo bisogno oggi di un sentire politico fatto così, di grandi desideri e tenaci speranze.
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