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Ami Ayalon è una di quelle persone che rendono Israele quel luogo speciale che è, dove spiritualità, forza e bellezza interiori, determinazione, coraggio e antichi valori si fondono per continuare a cercare e trovare la positività e l’energia per sopravvivere anche nella tempesta più sconvolgente. Parla con calma, con foga e negli occhi la scintilla di chi dà tutto se stesso in ogni momento della propria vita. Come vuole che la presenti? Chi è Ami Ayalon? Dove sta andando Israele e qual è il suo posto in questo viaggio? Non amo presentarmi in questa veste, ma penso che uno dei miei ruoli più significativi sia quello nel campo militare. Molte cose che penso e che dico sono influenzate dal mio background nel campo della sicurezza e forse proprio per questa mia attività ho la possibilità di conoscere le tematiche del conflitto israelo – palestinese e provare e dimostrare empatia verso l’altra parte. Sono stato Capo del Commando delle forze del mare, Capo della Marina Militare e Capo dei Servizi di Sicurezza israeliani, l’organo che si occupa di tutto ciò che concerne la lotta contro il terrorismo in Israele e della sicurezza interna del Paese. I miei genitori sono arrivati in Israele negli anni ’30, dalla Transilvania. Mio padre ha un bellissimo ricordo dell’Italia e degli italiani: allora giunse qui con l’immigrazione illegale ai tempi in cui gli inglesi avevano il protettorato. Ricordo perfettamente il Capitano della nave S. Maria che salpò dalle coste italiane salvando centinaia di ebrei sopravvissuti alla Shoah e al quale Nathan Altermann, il grande poeta israeliano, dedicò una delle più belle poesie. I suoi genitori sono tra i fondatori del kibbutz Maagan che sorge ai piedi del Golan sul Lago di Tiberiade e lei è nato là… Fino a quattro anni fa mio padre, che ora ha 84 anni, lavorava nella falegnameria del kibbutz. È stato uno dei capi dell’immigrazione illegale ed è stato imprigionato in Romania. Ha lavorato per Israele in Sudamerica ed ha avuto incarichi di ogni tipo e ancora oggi quando gli domandano come sta, fissa il Lago di Tiberiade e dice che negli ultimi anni la situazione è difficile. Quando lui guarda il Kinneret, cioè il Lago di Tiberiade, in verità guarda il suo livello d’acqua. Mio padre fa parte di quella generazione che è convinta che la “pace d’Israele” dipenda dal livello dell’acqua del lago di Tiberiade ed entrambi influiscono sulla sua situazione personale. Il Kinneret, Israele e lui sono un tutt’uno. Per questo quando mi domandano chi sono e da dove vengo amo raccontare questo. Forse perché sono il frutto di un grande legame tra storia, natura e terra. Ho trascorso la mia infanzia nella Valle del Giordano, nel mio kibbutz, mentre i siriani ci sparavano dall’alto quando uscivamo nei campi a lavorare, trascorrevamo intere settimane nei rifugi, per questo so bene il significato della parola confine. Questo per quanto riguarda me; ed ora la seconda domanda: dove stiamo andando? Dobbiamo prendere in considerazione che qui ci sono due popoli che stanno lottando per la propria esistenza e quando si arriva a questo punto è il momento di separare il “sogno” dal programma politico. Quando ci chiediamo dove stiamo andando la prima cosa che dobbiamo chiederci è se vogliamo continuare a rincorrere un “sogno” o se accettiamo la realtà con tutto ciò che comporta, cercando cioè di realizzare qualcosa di possibile, che forse non è ciò che desideravamo ma è più reale. Dobbiamo chiederci se stiamo vivendo una realtà messianica o una realtà tangibile. Io sono una persona pratica e secondo me il sionismo è un movimento pratico che è sempre stato tra il sogno da una parte e il programma politico di realizzare ciò che è dato realizzare dall’altra. Ben Gurion nel ’47 accettò il programma di spartizione dell’Onu. Non era questo ciò che avevamo sognato. La nostra aspirazione era un’Israele grande, la terra delle 12 tribù, le due rive del Giordano, il regno del Re Davide… ma già da allora, accettando questo programma decidemmo di rinunciare al “sogno”. Era l’unica alternativa che avevamo per creare uno Stato ebraico. Dagli albori del sionismo lottiamo tra la realizzazione del sogno e la realtà fattibile e il movimento sionistico ha scelto la realtà, perché non c’è alternativa, perché se ci fosse un’alternativa si sceglierebbe il sogno. Scegliere il possibile dà l’opportunità di attuare una parte delle proprie aspirazioni ma comporta molte rinunce. Quando Ben Gurion diede l’ordine di ritirarsi da Gerusalemme nel 1948 disse una cosa molto importante: «Continueremo a sognare Gerusalemme!». E non meno importante, c’è da prendere in considerazione che davanti a noi c’è un popolo che vive un dilemma simile al nostro. Anche tra i palestinesi ci sono degli estremisti che non vogliono rinunciare al sogno di una grande Palestina e anche tra loro ci sono persone pratiche che capiscono che non c’è alternativa e che sono pronti ad accettare una Palestina nei confini del ’67. Per loro tutto questo processo è persino più complicato che per noi per due motivi: il primo è che il popolo palestinese è nato nel 1948, cioè con la nascita dello Stato d’Israele e non da 4mila anni come il popolo ebraico. I palestinesi hanno cominciato a forgiare la loro immagine di nazione con la nascita del movimento sionistico in Israele. La narrativa palestinese inizia dal ’48, il loro eroe nazionale, Azzadin el Kassam, è siriano. Il concetto di nazione palestinese nasce in verità in seguito al rinnovo del focolare ebraico in questa terra. L’avvenimento più importante avviene nel ‘47 – ‘48 con la Nakba che per i palestinesi significa catastrofe e cioè la nascita dello Stato d’Israele. Quello che per noi ebrei è la Festa dell’Indipendenza, l’avvenimento di un miracolo che aspettavamo da secoli, per i palestinesi è il giorno in cui hanno dovuto abbandonare la loro terra. Se si potesse leggere, come in un volo d’uccello, cosa succede nell’animo di questi due popoli che vivono dal fiume Giordano al mare, si vedrebbe che entrambi vivono di paure. Da una parte c’è gente che teme di essere gettata in mare e dall’altra c’è gente che teme di essere sradicata dalle proprie case. E la tragedia più grande è che nessuna delle due parti vede la paura dell’altra. Mentre però gli ebrei hanno capito già dal ’48 che ci si doveva separare dal “sogno”, i palestinesi se ne sono resi conto sol o negli anni ’80 e quando nel ‘93 Arafat firmò il trattato di Oslo è come se avesse detto: «Rinuncio alla grande Palestina». Ed è quello che avevamo fatto noi perché se ci fosse stata un’alternativa non avremmo mai rinunciato ad Hebron, a Nablus, a Gerico. Nel ‘67 abbiamo cantato «Siamo ritornati ai pozzi d’acqua» perché per noi ebrei era come tornare a casa nostra dopo secoli. E cosi è per i palestinesi: Lod, pensano che appartenga a loro, e cosi Ramle e Haifa. Ma oggi anche tra loro molti si rendono conto che bisogna rinunciare a un sogno che non porterebbe a nulla e l’evidenza è dura per loro quanto lo è per noi! Per loro è persino più difficile perchè la loro situazione nei Territori occupati è peggiore della nostra. Questo è ciò che dobbiamo risponderci quando chiediamo dove stiamo andando: dobbiamo aspirare al sorgere di due nazioni, una accanto all’altra, ognuna delle quali deve rinunciare al proprio sogno che comporterebbe la distruzione dell’altra. Penso che si sia versato abbastanza sangue, troppo e che sia ora di capire che questa situazione è insostenibile. La forza non è una soluzione, il dolore è dolore per tutti. Ogni madre piange quando un figlio viene colpito. Noi ebrei abbiamo il dovere di comportarci con gli altri in modo dignitoso. Siamo il popolo scelto, non perché siamo migliori degli altri, forse siamo stati scelti persino per soffrire più degli altri, siamo di altro tipo, abbiamo una tradizione e una cultura che dovrebbe farci essere “la luce per gli altri popoli”. L’ebraismo è l’unione di tre elementi: il popolo d’Israele, la Torà e la terra d’Israele. Tutti e tre sono importanti ma la vita delle persone è più importante di un pezzo di terra. Forse in un’epoca messianica ci sarà la fusione perfetta di terra, popolo e Torà, ma ora la vita delle persone è la cosa più importante. Quando parlo di due Stati intendo uno Stato ebraico per gli ebrei e uno Stato palestinese per i palestinesi. E se oggi viene ucciso un giornalista americano per il solo fatto di essere ebreo, o se milioni di ebrei soffrono in Russia o in Argentina, siamo noi, lo Stato d’Israele, che dobbiamo prendere responsabilità diplomatiche. Perché Israele è garante per tutti gli ebrei in tutte le parti del mondo così come lo sarà la Palestina quando verrà costituito uno Stato autonomo. E se si parlerà di “Legge del ritorno” per i profughi palestinesi si intenderà in Palestina, come esiste una legge del ritorno in Israele per gli ebrei e se ci saranno palestinesi sofferenti nel mondo sarà compito dello Stato palestinese di occuparsene. Dovranno farlo. Ci sono già esponenti palestinesi come Sari Nussieba o Mahmoud Darwish, il poeta nazionale palestinese, che si rendono conto di questa realtà. «Non c. 46;è alternativa, sul suolo della Palestina c’è una nuova realtà», scrive Darwish.. Come spiega le loro manifestazioni di giubilo dopo gli attentati? In questo momento i palestinesi sono in posizione di svantaggio riguardo a noi. La vita nei campi profughi è una tragedia, la loro cultura è diversa e anche l’estrazione sociale, ma a me non interessano le loro reazioni, per me ciò che è importante è come si comporta il nostro popolo, sono i nostri valori, non possiamo più restare lì, nessun’occupazione è positiva. Che pensa della recente proposta dell’Arabia Saudita: riconoscimento di Israele da parte di tutti i paesi arabi in cambio del ritiro dai Territori occupati. Dunque: pace e riconoscimento diplomatico di Israele se Israele accetta di stare entro i confini del ‘67. Le sembra una proposta ragionevole? Perché? Non succederà in pochi mesi, ma è un programma positivo. È il programma di Clinton, ci dà la possibilità di mantenere i Luoghi Sacri anche se significa riconsegnare gran parte dei Territori, che non sarà un’operazione da poco. Secondo me questa proposta è una grande vittoria per Israele. Finalmente il mondo arabo accetta l’esistenza di Israele. Dopo 54 anni si rende conto che esistiamo, che siamo una realtà e non è una proposta de facto, è una proposta di normalizzazione con possibilità di scambi, di rapporti economici e culturali tra noi e i paesi arabi. Perché la stessa proposta fatta da Barak non è stata accettata? Perché mancava la fiducia, noi a Oslo abbiamo chiesto pace e sicurezza, i palestinesi hanno chiesto uno Stato. Immediatamente dopo Oslo loro hanno aumentato gli attentati e noi gli insediamenti e tutto è crollato. Che interesse ha l’Arabia Saudita ad avanzare questa proposta? Dopo l’11 Settembre vuole ripristinare i legami con l’America, vuole calmare le acque all’interno dei suoi confini che ribollono di fondamentalismo. E per noi è un’ottima occasione nell’odierna situazione ricevere una proposta a livello internazionale. Non pensa però che se usciremo dai Territori come siamo usciti dal Libano crederanno che lo facciamo per debolezza e lo prenderanno come un buon motivo per buttarci più facilmente in mare? Penso che un popolo che come noi ha vissuto la Shoah non può non farsi questa domanda. Chi puo assicurare qualcosa? Siamo in una situazione difficilissima e forse non ci sarà mai, qui, una pace come in Europa. Anche in Europa, in fin dei conti, è stato versato tanto sangue prima di arrivare alla situazione odierna. Siamo noi che dobbiamo fare il primo passo, perché siamo più forti, perché dobbiamo creare una situazione di fiducia. Può essere un rischio ma dobbiamo uscire, dobbiamo farlo in un modo diverso da come abbiamo fatto in Libano, dove siamo usciti quasi frettolosamente, senza un programma. La domanda è: che succederà se non usciremo? Israele è un paese democratico ed è la dimora del popolo ebraico. Uno stato palestinese sarà positivo anche per Israele perché nei confini storici del ‘48 c’è ancora una maggioranza ebraica e se accanto a noi si costituirà uno Stato palestinese potremo asserire anche dal punto di vista etico che questo è lo Stato del popolo ebraico. Nelle condizioni odierne non siamo la maggioranza e noi non saremo mai pronti a vivere in un Paese dove c’è l’apartheid. Oggi possiamo uscire dai Territori per nostra scelta, vittoriosamente, con una carta vincente: la riconsegna dei Territori. Cosa le dà questa calma, questa sicurezza, questo senso di controllo della situazione, ci sono delle cose che lei sa e noi, la gente comune, no? Io so delle cose che tu non sai. Ho un passato che mi da la possibilità di asserire con sicurezza che siamo forti, che dobbiamo fare il primo passo, proprio perché siamo forti! Non ti sto dicendo che non ci sono rischi, che si risolveranno tutti i problemi, ma ci sarà uno Stato d’Israele con i veri valori del sionismo, i valori su cui si basano la nostra morale e la nostra storia. Ma la gente in Israele sta vivendo di paura. C’è chi pensa che l’intransigenza di Sharon è necessaria per far fronte alla follia terrorista. E c’è invece chi sostiene che la politica della pura e semplice rappresaglia di Sharon ha in realtà sin qui portato acqua alle fazioni palestinesi più fanatiche. I primi ritengono che l’attuale primo ministro debba calcare ancor più la mano, gli altri pensano che egli in realtà non abbia alcun disegno politico se non quello del prendere tempo e, intanto, mantenere “caldo” il conflitto. Anche perché la pressione del nemico esterno, la guerra, avrebbe come esito quello di forgiare, rafforzare, “il carattere” della nazione ed evitare così l’implosione delle diverse “anime” interne allo stato ebraico (laici, religiosi, coloni). Qual è la sua opinione in proposito? Aver paura è legittimo. Le rappresaglie non raggiungono gli scopi. Coloro che si suicidano lo fanno per disperazione. Non hanno niente da perdere. Anche da noi la situazione è gravissima: non c’è sicurezza, la situazione sociale va disgregandosi e non c’è un progetto politico. E questo è il terreno adatto per le crisi interne. Non si possono risolvere i problemi sociali ed economici di un paese se non c’è sicurezza. Nei prossimi mesi ci aspetta un periodo ancora più difficile. Ma ciò che ci sembra così impossibile oggi, entro qualche mese, in questa situazione di caos, potrebbe cambiare drasticamente. Potrebbe, in mezzo al caos, sorgere un gruppo che proporrà una proposta politica realizzabile. Mettiamo che tutto questo avvenga, come concretamente si potrebbe gestire un ritiro israeliano dai Territori? Ci sono colonie ebraiche molto piccole facili da smantellare. Ma per le città e colonie come Maalè Adumim o Ariel, quale piano realistico si potrebbe approntare? I grandi insediamenti, secondo il piano Clinton, rimarrebbero al loro posto. Quando dice che non puo esserci una “pace europea” intende che un italiano e un francese sono molto più simili in fin dei conti di un israeliano e un arabo? (Sospira). è molto più difficile. Vorrei sperare che entro 5 o 6 generazioni le differenze si attutiranno. Ci saranno ancora molti fenomeni di terrore, di odio. Non finirà tutto cosi presto! C’e con chi parlare dall’altra parte? C’è, se si prova ad ascoltare si sente. Tu ti occupi d’arte, sai che non tutti possono ascoltare o vedere. Io stesso, quando vado a un concerto non riesco, dopo tante immersioni in acqua, ad afferrare tutti i suoni. Dall’altra parte c’è gente che ha paura e dobbiamo saper ascoltare. Ma io mi sento tradita, come israeliana, io cerco di ascoltare, insegno persino in una scuola araba per cercare di capire di più, di avvicinarmi, di porgere una mano! Tu tendi forse la mano, ma loro non la vedono la tua mano, loro vedono il tank a Ramallah. Anche mia moglie lavorava con bambini dei Territori, prima dell’Intifada, nei loro disegni che descrivono gli israeliani si vedono soldati, per loro noi siamo soldati e basta. Cosa pensa del manifesto degli ufficiali? Hanno creato una situazione di non democrazia. Un soldato può e deve rifiutarsi di obbedire a un ordine ingiusto, a differenza dei nazisti che asserivano di aver fatto ciò che avevano fatto perché avevano obbedito a un ordine. Ma il loro manifesto è uno schiaffo alla democrazia. C’è una generazione intera di bambini palestinesi cresciuti nell’odio. Ci vorranno molte generazioni per cambiare la situazione. Ora pianteremo i semi. Quando ci sarà più fiducia tra i due popoli i libri di testo pieni di odio verranno cambiati. Gerusalemme? Tutta la parte ebraica deve rimanere tale e così i luoghi sacri. Ami Ayalon mi legge un brano del poeta Mahmoud Darwish che parla di pace, che parla di due Stati uno accanto all’altro. Ayalon parla con empatia, con sicurezza, con onestà, con ottimismo. Senza paura, con la nobiltà di chi è forte d’animo. Di chi si preoccupa non solo di se stesso. Parliamo per più di due ore, risponde a tutto con sincerità, con pazienza, con grande amore verso questa terra. È un grande personaggio e capisco perché uno del mio kibbutz mi ha detto quando ha saputo che l’avrei intervistato: «Ti prego, digli da parte mia tutto il mio affetto!». di Calò Livné Angelica |
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