Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 21/08/2022, a pag.16, con il titolo "Tra le famiglie del Donetsk che non vogliono evacuare: 'Tanto i russi non arrivano' ", l'analisi di Brunella Giovara.
Tuona, ma non sono tuoni. Bambini, avete paura dei russi? «Sì». E perché non ve ne andate? Perché sono già scappati una volta e poi ritornati, perché ci sono le vacche da accudire e perché «questa è la nostra casa». Casa popolare quasi nel bosco, cadente e scrostata di suo, ma sempre casa. Ci sono molti motivi per restare, anche in un paese a due chilometri dal fronte come è Mykolaivka. Tanti se ne sono andati quando il governo ha ordinato l’evacuazione del Donetsk, ma della popolazione pre-guerra di un milione e 600mila persone 220mila sono ancora aggrappate alla vita di sempre, e se ne stanno sedute tra le erbacce che crescono in giardini una volta ordinati, aspettando quel che sarà. Sulla strada che da Kramatorsk porta a Sloviansk, gli escavatori costruiscono nuove trincee e montagne di terra, così si procede tra gimcane e sobbalzi, tra altissime betulle abbattute di fresco. Gli ucraini si preparano a un eventuale sfondamento, questo si capisce molto bene. E quando si arriva, ecco la grande scritta “Sloviansk è Ucraina”, perché è stata la prima città occupata dai russi nel 2014: arrivarono gli “uomini verdi”, soldati senza bandiere né gradi, che presero possesso dei posti di polizia e dell’intelligence. Putin disse «sono solo minatori…», lì cominciò la guerra di oggi. Oggi Sloviansk è libera, ma sui vetri delle finestre ancora intere ci sono incollati santi e madonne, che proteggano dai colpi di mortaio, San Giorgio, San Nicola e San Giovanni. Fanno quello che possono, ma sotto i loro occhi fissi ci sono macerie, voragini lasciate dai missili, i morti di giornata. E salendo verso la collina si capisce anche che qui non si può più vivere, e a parte tre capre abbandonate neanche i cani randagi sopportano più i bombardamenti. Si arriva davanti all’Ospedale centrale del distretto di Sloviansk, incredibilmente intatto, ma chiuso.
Poi c’è Mykolaivka, una batteria di palazzine costruite negli anni Sessanta, al risparmio, tra gli alberi. C’è qualcuno? Su una panca le amiche Natalia Simenovna e Polina Andrievna. Due ragazze sui settanta, con il grembiule da cucina, uscite a prendere una boccata di caldo. Non hanno paura dei russi, ma non li amano. Domandano in che lingua si vuole parlare: «Russo, ucraino, o il nostro dialetto del Donetsk? », sarà un misto dei tre. «I russi non arriveranno mai fin qui. Sappiamo che sono vicini, ma i nostri soldati sono più forti. Senti questi colpi? Sono i nostri mortai». Allora, si aspetta. «Non abbiamo i soldi per andarcene, e poi siamo sempre vissute qui, e qui moriremo ». Di vecchiaia, «certo! In casa mia», dice Natalia. Ieri ha fatto il bortsch e «oggi lo finisco, insieme ci mangio un uovo. Ho due galline e due cani, e come potrei andarmene, lasciarli qui soli…». Polina mangerà grano saraceno, dice «senti che tranquillità », e non sta scherzando, è proprio che i colpi non li sente più. Nella strada non passa nessuno, neanche un camion militare. «I soldati stanno lassù, ogni tanto li vediamo».E i quattro ragazzini sull’altra panchina, nemmeno loro se ne andranno. Tre sorelle e un cugino, timidi e sorridenti. Non giocano, non fanno niente. «Siamo già stati evacuati una volta, a Dnipro, ma non ci trovavamo bene. E il pane era cattivo». E qui c’è il pane? Sì, arriva da Sloviansk assieme a qualche notizia, ma nessuno a Mykolaivka sa cosa sta succedendo in Crimea, ad esempio. Non c’è connessione, quasi mai, e nessuno ha la televisione. Si vive isolati, ogni tanto i genitori vengono a sapere qualcosa perché lavorano alla centrale elettrica Tets, un grande impianto a carbone che sembra deserto invece funziona, seppure al minimo. La centrale deve marciare, gli operai devono fare i turni, i figli stanno a casa. Alina, 15 anni, e le gemelle Karina e Darina di nove, più Ilya, di dieci, non hanno paura delle bombe, «dei russi sì. I missili? Ogni tanto ci sono degli “arrivi”, ma oggi no, è tranquillo». E cosa fate tutto il giorno? «Niente, stiamo qua. Poi arrivano i genitori e ceniamo. Dopo andiamoa dormire». «I russi? Nel 2014 mi hanno portato via anche le bottiglie vuote… E poi dicono che noi siamo filorussi, ma figurati. Parliamo russo, ma non significa che lo vogliamo sulla testa». Valentina vende fiori del suo giardino, uova d’oca, patate bianchissime, davanti al supermarket di Sloviansk, moderno, semivuoto. Lei e le sue amiche, contadine in pantaloni corti, i denti d’oro, le mani ruvide. È dura coltivare l’orto sotto le bombe, ma «dove vado? Ho tre figli e tre nipotini. E gli animali, i cani, le vacche, oche e galline. Siamo senza acqua corrente, però abbiamo il pozzo», dice Ala, 50 anni. Si è alzata alle 4 per fare ipiroski da vendere ai soldati, che li portano al fronte assieme alle munizioni e ai bidoni d’acqua. E glieli darebbe anche gratis, però deve campare anche lei, «disgraziata che sono, ma ormai siamo tutti disgraziati, da queste parti».
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