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La Stampa Rassegna Stampa
18.08.2022 Perché uno Stato israelo-palestinese è semplicemente impossibile
La disinformazione di Stefano Stefanini

Testata: La Stampa
Data: 18 agosto 2022
Pagina: 27
Autore: Stefano Stefanini
Titolo: «Una soluzione confederale per la terra d'Israele»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/08/2022, a pag. 27, con il titolo "Una soluzione confederale per la terra d'Israele", il commento di Stefano Stefanini.

Stefanini è oggi autore di un pezzo di disinformazione in stile Manifesto. L'opzione che propone, quella dello Stato unico, è infatti contraddetta sia dalla fattibilità sul campo sia dall'odio di parte arabopalestinese, fino a oggi intenta a combattere lo Stato ebraico molto più che a porre le fondamenta di uno Stato arabo. Suggeriamo perciò a Stefanini la lettura dell'articolo di Rossella Tercatin oggi su Repubblica, ripreso da IC alla pagina https://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=4&sez=120&id=86832
in altra pagina di IC l'intervento dell'Ambasciatore Dror Eydar:
https://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=115&sez=120&id=86835
entrambi utili a Stefanini e al direttore della Stampa per aver pubblicato la follia della 'soluzione confederale'
invitiamo i nostri lettori a scrivere alla Stampa:
lettere@lastampa.it

Ecco l'articolo:

Immagine correlata
Stefano Stefanini

https://www.touteleurope.eu/wp-content/uploads/2020/08/Israel-Palestine-782.jpg

Gerusalemme, agosto 2022. Un'altra tregua a Gaza. Sollievo nella Striscia; tacciono i razzi della Jihad islamica, l'efficiente "Cupola d'Acciaio" israeliana, gli allarmi a Ashqelon e Tel Aviv. E' solo una tregua. Fa le milizie di Gaza e Israele; in attesa della resa dei conti politica fra Hamas e Autorità palestinese; nella rivalità fra Hamas e Jihad islamica. C'era una volta il problema arabo-israeliano. Non più. C'è ancora quello palestinese. Esplode periodicamente a Gaza, cova sotto la cenere a Ramallah e Gerusalemme orientale. Pone Israele di fronte alla scelta esistenziale di continuare ad essere Stato "ebraico e democratico".

La soluzione dei due Stati, individuata e apparentemente portata di mano dopo gli accordi di Oslo del 1993, si è arenata sulle secche del "processo di pace". Le alternative sono più insidiose. Gli accordi di Abramo consacrano l'accettazione araba di Israele nella regione, anzi ne fanno parte integrante dell'architettura di sicurezza. Sono la tappa finale - di cui Gerusalemme ringrazia Teheran - di una lunga traversata nel deserto, iniziata con la storica visita di Anwar Sadat nel 1977, attraverso paci fredde e calde, rapporti bilaterali spesso sottobanco. Persa per strada la questione palestinese. Gli Stati arabi sunniti offrono una solidarietà nominale, ma danno la priorità al contenimento e deterrenza dell'Iran, che vedono rafforzarsi in Libano e Siria e giocare la carta sciita, maggioritaria (Iraq e Bahrein) o minoritaria. Israele è perno essenziale di qualsiasi strategia anti-Teheran. I lungimiranti, Uae, Giordania, Marocco, Egitto non disdegnano la collaborazione bilaterale economica, energetica, tecnologica in cui Israele ha molto da offrire.

I palestinesi sono in mezzo al guado di un processo di pace iniziato ma incompiuto, di una statualità limitata e di un frazionamento territoriale e politico. Il prolungato stallo del negoziato con Israele lascia l'Autorità palestinese nell'esercizio di quasi poteri sovrani su circa un quinto della Cisgiordania (zona A), il grosso (zona C, 60%) sotto occupazione militare israeliana, e con aree di insediamenti, il restante (zona B, 20%) in una forma mista di amministrazione. Ma ha perso Gaza, defenestrata da Hamas dopo il ritiro israeliano del 2005, evacuando forzatamente i coloni. Se Gaza doveva essere il progetto pilota del futuro Stato palestinese, è fallito. Israele ci penserà due volte prima di altri ritiri. I due Stati hanno perso quota fra trattative ripetutamente arenatesi, stanchezza della leadership palestinese, disinteresse dei governi Netanyahu, spostamento populista del baricentro politico israeliano. Che egli ritorni o meno al potere dopo le elezioni del primo novembre), le quinte in quattro anni, non ci si attendono cambiamenti di indirizzo. Spunta la soluzione opposta di Stato unico in una paradossale convergenza fra destra israeliana e coloni, pro-annessione, e nuove generazioni palestinesi stanche di aspettare uno Stato che non arriva mai. Con vision totalmente diverse. E' "complicato", dicono sia israeliani che palestinesi, per l'incrociarsi di tre fattori: giuridico; politico; demografico. Il diritto internazionale è inequivocabilmente per i due Stati.

La radice giuridica dello Stato ebraico risale al Mandato per la Palestina della Società delle Nazioni (1922), il piano di partizione della Palestina fu approvato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 181 del 29 novembre 1947, lo Stato di Israele fa parte dell'Onu dall'11 maggio del 1949, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, dalla 242 del 1967 e alla 2334 del 2016, reiterano che Israele non ha titolo ai Territori palestinesi dopo la guerra dei Sei Giorni. Il fallimento è stato politico-diplomatico. Dopo Oslo (1993) trent'anni di negoziati non sono arrivati a una conclusione, la spinta politica si è affievolita sul versante israeliano, la frustrazione palestinese si è tradotta in frammentazione e ricerca di alternative. Gli stanchi veterani del processo di pace ne parlano con un misto di rimpianto e di rassegnazione. Ci siamo andati vicini, ma non abbiamo superato gli ostacoli. Chi ci crede ancora nei due Stati sente mancare il terreno sotto i piedi. Lo Stato unico è una sfida demografica. Israele ha una popolazione di 9,5 milioni, di cui quasi 2 arabi - con pieni diritti politici. I palestinesi in Cisgiordania sono 2,7 milioni, a Gaza più di 2 milioni, altri 320mila a Gerusalemme Est. Conglobando tutti, il rapporto demografico ebraico-arabo sarebbe di parità: lasciando fuori Gaza, 40:60. Questo rende spericolata la convergenza fra partito israeliano dell'annessione e fautori palestinesi dello Stato unico. Per i primi, il futuro Stato deve rimanere ebraico, e i palestinesi cittadini di seconda classe. I più zelanti fanno professione di fede: Dio ci ha dato questa terra, la soluzione è nelle Sue mani. Difficile obiettare, ma i politici, anche i più decisi a non cedere "Giudea e Samaria", esitano ad affidarsi alla Divina Provvidenza. Benjamin Netanyahu non osò varcare il Rubicone dell'annessione, pur col conforto di Donald Trump. Per i secondi, farà giustizia il tempo: uno Stato che pratica di fatto l'apartheid non è sostenibile. Intanto una cittadinanza di seconda classe è preferibile a uno Stato di seconda classe. La prima si cambia, il secondo no – a parte che non arriva. A parte compromettere radicalmente l'ideale "ebraico e democratico" su cui è stato fondato Israele, uno Stato unico sarebbe foriero di instabilità permanente. Restano i due Stati.

La comunità internazionale non deve farsi illusioni. Israeliani e palestinesi ci devono arrivare da soli. Gerusalemme forte della sicurezza derivante dall'accettazione regionale araba, la nuova generazione di Ramallah dei benefici dell'integrazione economica e della tragica futilità di due Intifade. Oslo va rivisitata, magari con un processo a tappe verso la piena statualità, come l'ipotesi di "confederazione". Ma la questione palestinese non può né essere nascosta sotto il tappeto degli indiscutibili successi di Israele, politici, economici e culturali, e del relativo benessere dei palestinesi della Cisgiordania, né essere annacquata nel cocktail avvelenato di uno Stato spaccato fra due comunità in cagnesco.

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