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Clara e Vittorio Strada: dal comunismo più rigoroso alla liberazione
Le loro storie raccontate da Diego Gabutti
Riprendiamo le recensioni di Diego Gabutti dell’autobiografia di Clara Strada Janovic e della storia dell’intellighenzia comunista tracciata negli anni da suo marito, lo slavista Vittorio Strada. Sono opere tuttora indispensabili per non dimenticare gli orrori del comunismo, che bandito la ragione e imposto, in URSS come in Italia/Europa, l’ubbidienza assoluta all’ideologia marxista-leninista. Clara e Vittorio Strada hanno saputo dire no al nichilismo.
Carla Strada Janovic, Una infanzia siberiana, Marsilio 2017. Traduttrice di classici russi, docente di lingua russa nelle principali università italiane, sposata con lo slavista e critico letterario Vittorio Strada, Clara Strada Janovic è nata (1935) «nell’estremo oriente siberiano» negli anni del Terrore staliniano, per di più in una regione destinata a Gulag e deportazioni.
Infuriava la tempesta della storia e delle ideologie. Tempo di guerre e rivoluzioni, d’olocausti, d’armi votate alla devastazione. Non di meno queste memorie d’Una infanzia siberiana – trascorsa all’ombra dei primi piani quinquennali, dei cekisti onnipotenti, della censura su libri e giornali, della crudele religione bolscevica, delle purghe scatenate dal grande assassino – raccontano un’infanzia bella e a suo modo persino gioiosa. Clara Strada Janovich racconta l’età terribile dell’horror comunista senza il senno di poi dell’adulto che ha dovuto per forza aprire gli occhi. È il mondo d’una bambina, i suoi genitori e i suoi nonni, gli animali, il pane da cuocere, i giochi pericolosi, le invidie, i tradimenti, la scuola. C’è miseria, c’è fame, ma c’è anche la neve, ci sono le izbe e la primavera. C’è la prima lettura delle fiabe di Puskin prese in prestito «alla biblioteca del circolo locale. Predisposi con solennità l’evento, preparandomi alla lettura come a una festa. Feci i mestieri, misi il fratello piccolo nel suo lettino, lavai le mani, cambiai il vestito e con un sentimento religioso mi sedetti al tavolo vicino alla finestra. Fuori c’era la luce intensa del sole ancora non tramontato, la neve che ricopriva tutto, il cielo azzurro e l’aria di una trasparenza cristallina». È un mondo contadino, dove kolchoz e sovchkoz, che presto occuperanno tutto lo spazio visivo, sono ancora ombre a lato dello sguardo. È l’ultima replica, per così dire, delle novelle di Cechov e Turgeniev, crudeltà e piccoli orrori quotidiani compresi. «Tisico, molto magro, carnagione scura, naso aquilino, con peli che spuntavano dalle narici, un’espressione di cattiveria nello sguardo che sembrava ti trapanasse, tale quale lo stregone de La terribile vendetta di Gogol», c’è il calzolaio Prochorov che denunciò l’amico Sergaciov. Questi, al pranzo nuziale di suo figlio, aveva bevuto un po’ troppo: «Afferrò un coltello e, facendo un gesto minaccioso contro un ospite, sfiorò il poster con l’immagine di Stalin in tribuna. Esattamente due giorni dopo fu arrestato e trasportato a Nikolaevsk. Là fu condannato a dieci anni di reclusione», in realtà a morte. Ci sono «i cinesi e i coreani» che «nel 1940 scomparvero», improvvisamente «deportati chissà dove. Probabilmente si trattò di un’operazione preventiva per liberarsi di un’eventuale “quinta colonna” in caso di futura guerra». C’è la sconvolgente storia d’un infanticidio e, più sconvolgente ancora, c’è l’amore per il tiranno, inculcato nei bambini con poesie, film e canzoni. Quanto poco il tiranno meritasse quest’amore, Clara Strada Janovich lo spiega bene quando racconta che «di tanto in tanto nei cinegiornali che precedevano la proiezione dei film facevano vedere la ragazza uzbeca Mamlakat Nakhangova che negli anni Trenta si era distinta nella raccolta del cotone. Si vedeva una bambina con due treccine e calotta in testa sulla tribuna del Mausoleo nella Piazza rossa abbracciare e baciare Stalin. Come la invidiavo! Anni dopo, se non sbaglio, lessi nella rivista israeliana in lingua russa Vremja i my (Il tempo e noi) una notizia su questo episodio. Mamlakat sentì delle parole georgiane, pronunciate dal capo sovietico. Le ricordò per tutta la vita (ciò è credibile perché la memoria infantile è molto tenace sia riguardo i suoni sia per le impressioni visive), le ripeteva spesso tra sé e sé e, quando nell’età matura incontrò un georgiano, gli domandò che cosa significassero. Il loro significato era: “Togliete via questa pidocchiosa!”» Cito ancora da Un’infanzia siberiana. Siamo negli anni cinquanta e l’autrice, sposata con lo slavista Vittorio Strada, sta parlando con Palmiro Togliatti, il Migliore, «delle repressioni degli anni Trenta. E qui Togliatti, papale papale, dice: “non sapevamo niente”. Devo dire», scrive Clara Strada, «che proprio in quei giorni stavo leggendo il libro Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge appena uscito in traduzione italiana. A sentire queste parole persi le staffe: ma come, stai all’albergo Lux, tutta Mosca vive nel terrore, ogni giorno scompaiono decine di persone, e tu non ne sai niente?! Così obiettai con fermezza: “Adesso sto leggendo Victor Serge, che dice il contrario”. Non scorderò mai come cambiò lo sguardo di Togliatti: sembrava che mi avesse tagliato una lama d’acciaio, tanto si restrinsero le sue pupille. Nei suoi occhi scorsi una vampata di odio: lo sguardo era diventato gelido. Si vedeva che la mia importuna obiezione l’aveva punto sul vivo, e forse aveva conosciuto Serge al Komintern prima che fosse perseguitato per il suo antistalinismo». Vittorio Strada, Il dovere di uccidere. Le radici storiche del terrorismo, Marsilio 2018; Lenin, Stalin, Putin, Rubbettino 2011; Impero e rivoluzione. Russia 1917-2017, Marsilio 2017; Il fascismo russo, con Sergej Kulesov, Marsilio 1998; Autoritratto autocritico. Archeologia della rivoluzione d'Ottobre, Fondazione Liberal 2004. Grande slavista, ex comunista, curatore con Eric Hobsbawn della monumentale Storia del marxismo in cinque volumi per Einaudi, Vittorio Strada (1929-2018) ha esplorato negli ultimi anni questa particolare frontiera. Al pari d’altri suoi libri recenti – da Lenin, Stalin, Putin a Impero e rivoluzione, dal Fascismo russoad Autoritratto autocritico – anche Il diritto di uccidere spiega da quali scintille sia scaturito il fuoco che ha incendiato da un capo all’altro il Novecento. È lo stesso fuoco le cui ultime fiamme sono divampate nella jihad e nel terrorismo mistico delle avanguardie religiose, eredi di quelle nichiliste e bolsceviche. Tra il comunismo e l’Islam ci sono infatti somiglianze strette, come aveva già intuito John Maynard Keynes, convinto (cito da Strada) «che il comunismo fosse una religione, “non soltanto un partito”, e che Lenin fosse “un Maometto e non un Bismark”». «Islam del XX secolo», il comunismo ignora (secondo Jules Monnerot, citato sempre da Strada) «la distinzione tra politico e religioso», una distinzione ignorata anche dall’«Islam conquistatore» (e oggi dagl’islamisti, specie quando li si lascia liberi d’agire, riconoscendone in qualche contorta maniera le ragioni, come negli anni di Obama alla Casa Bianca). Anche Bakunin (che pure nella genesi del terrore nichilista giocò una parte più che marginale) accennò da qualche parte al lato islamico e oscuro del comunismo marxleninista. Oggi queste affinità balzano agli occhi, anche se non sono riconosciute da tutti (specie dagli ex e post comunisti). Esattamente come il terrore rosso, proprio come la guerra ai «kulaki» (o contadini ricchi) dichiarata dal partito bolscevico, anche il terrorismo jihadista si propone di cancellare interi gruppi umani dalla faccia del mondo: gl’infedeli, gli apostati. Un «conservatore illuminato», Nikolaj Strachov, diceva in termini appassionati» – scrive Strada • che il nichilismo è «un fenomeno nuovo, non soltanto russo, ma europeo» e che «non è un un semplice misfatto, né un semplice crimine politico: […] il nichilismo è un peccato trascendentale, il peccato d’un orgoglio inumano, è una mostruosa perversione dell’anima, per effetto della quale il misfatto diventa virtù, l’effusione di sangue opera buona, la distruzione la miglior garanzia di vita. L’uomo si è immaginato di dover correggere la storia universale e di trasformare l’anima umana». Fenomeno non soltanto russo ma europeo, oggi il terrore nichilista, di cui Strada esplora nel suo libro le origini e le evoluzioni, è diventato un fenomeno universale, il franchising globale della violenza politica che trae ispirazione dai dogmi religiosi, dalle utopie socialiste, dalle fantasie ecologiste e gender, dalle chimere metafisiche della politica, persino dalle trame grottesche dei fumetti e dei film dell’orrore. Tutto è cominciato in Russia, a metà Ottocento, quando lo zarismo generò la sua Nemesi: il movimento radicale degli studenti, che (al pari del nostro Sessantotto, un secolo più tardi) prima contagiò l’intellighenzia e poi tracimò nella società intera. Strada sintetizza, nel suo libro, tutte le tappe di questa mostruosità intellettuale, dalle campagne d’omicidi politici dei populisti al terrore bolscevico di massa. Racconta dell’infatuazione di Lenin per le imprese di Sergej Nečaev, di cui Dostoevskij romanzò (e denunciò, con occhio profetico) le imprese nei Demoni, un libro esemplare, che purtroppo fallì nel tentativo di placare i venti d’apocalisse che soffiavano nella società russa. Con le parole di Pëtr Struve, giurista e economista, prima marxista e poi liberale, Strada spiega che il «massimalismo» socialista «ha significato la fusione del “rivoluzionario” col “bandito” e la liberazione della psiche rivoluzionaria da ogni freno morale». Strada racconta anche un’altra storia, che aggiungo qui in coda come un’orecchia nella pagina del Dovere di uccidere. È la storia della «pubblicazione a Mosca nel 1907 d’un opuscolo intitolato La depurazione dell’umanità, il cui autore, Ivan Pavlov, teorizzava la divisione dell’umanità in due razze non etniche, ma etiche: la razza degli sfruttatori, con tutto il loro apparato di potere, una razza moralmente inferiore agli antenati animali dell’uomo, mostri le cui patologiche caratteristiche non potevano che tramandarsi di generazione in generazione, e [la razza delle] loro vittime, gli sfruttati, oppressi dal dominio dei primi. Fatta questa distinzione, il compito era chiaro: distruggere la parte peggiore dell’umanità, depurando quest’ultima coi mezzi drastici e spietati di un terrore di massa. Neppure i massimalisti fecero propri la teoria e il programma di Pavlov, pur riconoscendone l’acume». A mettere in pratica il programma di Pavlov avrebbero pensato, qualche decina d’anni più tardi, Stalin e Hitler, Mao e Pol Pot. |