Da Navalny a Israele fino all’Ucraina: la bancarotta morale di Amnesty Commento di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 10 agosto 2022 Pagina: 2 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Da Navalny a Israele fino all’Ucraina: la bancarotta morale di Amnesty»
Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 10/08/2022, a pag. 2, l'analisi di Giulio Meotti dal titolo "Da Navalny a Israele fino all’Ucraina: la bancarotta morale di Amnesty".
Giulio Meotti
Roma. Febbraio 2021. Amnesty International toglie all’oppositore russo Alexei Navalny lo status di “prigioniero di coscienza”, dopo averlo accusato di “commenti xenofobi”. Febbraio 2022. “Hamas, Hezbollah e Iran vogliono eliminare Israele, ma chi avrebbe mai pensato che avrebbero trovato alleati in Amnesty International?”, si domandava il Wall Street Journal. Un rapporto della celebre ong dei diritti umani etichetta Israele come stato di “apartheid” che merita l’obbrobrio morale e la sanzione legale dell’occidente. Il rapporto di Amnesty è un lungo atto d’accusa contro Israele in cui si tenta di dimostrare che è uno stato di apartheid per il modo in cui tratta i palestinesi. Il rapporto di Amnesty non è un’altra denuncia degli insediamenti israeliani, ma dell’esistenza stessa di Israele. Il rapporto tratta il 1948, l’anno di fondazione di Israele, come il peccato originale da cui derivano tutti gli altri. Adesso Amnesty è travolta dal rapporto che accusa l’Ucraina di aver messo in pericolo la popolazione civile. Oksana Pokalchuk, direttrice di Amnesty International Ucraina, ha annunciato le dimissioni dall’organizzazione dopo aver inutilmente cercato di dissuaderla dal pubblicare il rapporto così come è stato redatto. “Il rapporto di Amnesty mette in pericolo i civili ucraini”, scriveva ieri Hillel Neuer, direttore di UN Watch. “Incoraggia la Russia ad attaccare aree civili, incolpa l’Ucraina e invoca il sostegno di un gruppo internazionale per i diritti umani. L’anno scorso, Amnesty ha privato Alexei Navalny del suo status di prigioniero di coscienza. I loro leader dovrebbero dimettersi. Adesso”. Per Amnesty è una bancarotta morale dietro l’altra. Nel 2010 l’allora segretario di Amnesty, Claudio Cordone, disse che il “jihad difensivo” non è “antitetico” alla battaglia per i diritti umani. E lo disse in risposta a una petizione sul rapporto di Amnesty con Cage, la ong fondata da Moazzam Begg. Il caso esplose quando Gita Sahgal, a capo della sezione gender di Amnesty, fece trapelare sul Sunday Times il suo sfogo rimasto senza risposta da parte dei vertici della ong. “La campagna costituisce una minaccia agli stessi diritti umani. Apparire assieme al più famoso sostenitore britannico dei talebani, trattandolo come un difensore dei diritti umani, è un grosso errore”.
C'è una T di troppo
Risultato? Sahgal fuori da Amnesty, non il talebano. Amnesty ha sempre liquidato questi episodi come piccoli incidenti di percorso, ma a metterli tutti in fila c’è da schiantarsi contro un muro. Dall’essere paladini di Václav Havel e Andrej Sacharov sono passati a definire Guantanamo “il Gulag del nostro tempo”, secondo la definizione di Irene Khan, allora segretario di Amnesty. “L’organizzazione che un tempo era un faro di speranza per i prigionieri politici è diventata una propaggine di Stop The War”, scrive Stephen Pollard sul Telegraph, che accusa Amnesty di “ossessioni anti occidentali”. Nel 2012, Kristyan Benedict, l’allora responsabile delle campagne dell’ente di beneficenza, a proposito di tre parlamentari ebrei inglesi scrisse su Twitter: “Louise Ellman, Robert Halfon e Luciana Berger entrano in un bar. Ognuno ordina un giro di B52… #Gaza”. Il compianto Christopher Hitchens scrisse che “Amnesty International ha perso di vista il suo scopo originario”. Amnesty è nata negli anni Sessanta con uno scopo nobile: difendere la politica dei diritti umani adottata dopo la Seconda guerra mondiale e oscurata dalla cinica realpolitik della Guerra fredda. Nello spirito della sua celebre torcia, Amnesty ha gettato a lungo una luce dove c’era soltanto buio. Oggi la sua fiammella è un misero cerino.
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