Viaggio a Zaporizhzhia nell’incubo nucleare: 'La centrale è minata' Analisi di Brunella Giovara
Testata: La Repubblica Data: 07 agosto 2022 Pagina: 14 Autore: Brunella Giovara Titolo: «Viaggio a Zaporizhzhia nell’incubo nucleare: 'La centrale è minata'»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 07/08/2022, a pag.14, con il titolo "Viaggio a Zaporizhzhia nell’incubo nucleare: 'La centrale è minata' ", l'analisi di Brunella Giovara.
Zaporizhzhia
Le due torri sono proprio laggiù, spuntano come matite sottili dalla nebbia del mattino, intorno è la pace assoluta, con i primi contadini che vanno a lavorare sul trattore con l’aria condizionata. Sulla strada che porta a Nikopol c’è un verde smagliante, e in quelle radure fresche i soldati ucraini smontano e rimontano di guardia. «I russki? Nella centrale», che giusto ieri hanno completamente minato. Nessuno deve colpire la più grande centrale atomica d’Europa che ha sede a Enerhodar, qualche chilometro a sud di Zaporizhzhia. Occupata da mesi, i tecnici ucraini trattati come schiavi, e il rischio concreto di una “katastrofa”, parola che non ha bisogno di traduzione. E appena la nebbia si alza, si vedono le sagome dei sei reattori nucleari. Tre già inattivi, un quarto è stato spento ieri, quando si sono capiti i danni all’impianto elettrico, impossibile garantire la sicurezza dei vari processi, quindi stop. Venerdì ci sono state tre esplosioni e molti spari, e adesso i due eserciti si rimpallano l’accusa: noi non abbiamo fatto niente, siete stati voi, e viceversa.
Ma sembra strano che gli ucraini abbiano deciso di bombardare la loro stessa centrale, anche se è diventata una base russa, la più inattaccabile che ci sia. I russi invece colpiscono a casaccio. Ieri hanno distrutto una grossa azienda agricola non lontano da qui, e così sono bruciati i silos con il nuovo raccolto: 3mila tonnellate di grano, 365 di semi di girasole. E hanno colpito anche Nikopol e Kryvyi Rih, nella notte. E centrato, questa volta con intenzione, un deposito di carburante dell’esercito ucraino, 50mila tonnellate di gasolio destinate al gruppo operativo Dnepr, vicino a Zaporizhzhia. Cosa sia successo all’interno, non si saprà mai, ma certo si è temuto il peggio in tutto il Paese, e anche più in là. «L’Europa ha potuto vedere questo nuovo giorno solo perché per miracolo la centrale non è esplosa », ha detto Mikahilo Podolyak, consigliere di Zelensky, parlando di «pericolose provocazioni» e invitando Onu e Aiea a «chiedere il ritiro dei russi dalla centrale, per consegnarla al controllo di una commissione speciale». E Josep Borrell, Alto rappresentante Ue, ha detto che c’è stata «una violazione grave delle regole di sicurezza nucleare, un altro esempio del disprezzo della Russia per le norme internazionali». Rafael Grossi, direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, ha denunciato il «rischio reale di un disastro nucleare». Dunque, l’Aiea deve poter entrare, controllare,e vigilare stabilmente. I russi rifiuteranno, resteranno nascosti nella centrale fino al giorno in cui decideranno di andarsene. Così, si può solo guardare la sagoma dei possenti edifici affacciati sulbacino di Kachovka, proprio sulle rive del Dnepr. Sarà il nuovo fronte, lungo il fiume che qui è largo 5 chilometri, sembra fermo ma va velocissimo, grigio e metallico, non c’è ponte di barche che regga questa corrente. Sull’altra sponda, alcuni chilometri di esercito ucraino mimetizzato tra gli alberi, poi la strada che porta a Nikopol ormai militarizzata, dove i soldati sbadigliano ai check point, aspettando il cambio turno, e uno di loro racconta «stanotte ho dormito in una cantina. Ma sentivo bene le bombe. Però ho dormito ». Tutti temono il big-bang, nessuno osa pronunciare la parola che fa paura: Chernobyl, ma anche peggio. Fukushima. E poi piove. Di colpo, a frustate, un monsone si abbatte su civili, soldati e bestie al pascolo, e sulla temibile centrale minata dove solo tre settimane fa un ingegnere ha rifiutato di obbedire a un ordine russo e l’hanno massacrato di botte. È poi morto all’ospedale di Enerhodar, qui lo sanno tutti, si chiamava Andrey Goncaruk . Era addetto ai controlli delle acque di raffreddamento, le cui torri ora brillano al sole. Le squadre dei tecnici vivono attorno alla centrale, vanno al lavoro scortati dai russi, che li prelevano e li riportano a casa, a turni, lo sanno anche loro che il rischio è grande, eppure nei primi giorni dell’occupazione molti soldati avevano maneggiato materiali pericolosi, forse alcuni sono già morti. Non sapremo mai niente di quei giorni, e anche di questi, se non che basta così poco per cancellare tutto questo ben di dio, chilometri di giallo dei girasoli, chilometri di verde del mais, i campi con le cultivar sperimentali, i frutteti, i meleti perfetti. E oltre, la città dai molti grattacieli incompiuti, perché la guerra ha fermato tutto, famosa per i cosacchi — gli “uomini liberi” — e per la centrale nucleare. E ancora oltre, superando i confini di questo oblast e poi di questo Paese, la “katastrofa” che avvolgerebbe l’Europa. Di tutto questo però ci si cura giusto il necessario, e niente di più, nel via vai di Tir militari, trattori, vacche, auto di civili che se ne vanno verso nord, non si può che guardare l’altra sponda e aspettare, aspettare.
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