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Antisemitismo: si deve ripartire da zero?
Analisi di Ben Cohen
(traduzione di Yehudit Weisz)
Il monitoraggio e l'analisi dell'antisemitismo contemporaneo, cose di cui mi occupo piuttosto di frequente, sono il più delle volte un'esperienza frustrante, ma mai come ora. Nonostante tutto l'inchiostro usato per chiarire la rinascita dell'odio contro gli ebrei negli ultimi 20 anni in una miriade di Paesi e di contesti diversi, si è tentati di concludere che la comunità ebraica non abbia fatto alcun progresso nemmeno nello spiegare come identificare l'antisemitismo, figuriamoci di combatterlo. Alcuni lettori potrebbero dire che sto esagerando la nostra situazione; dopotutto, per contrastare il problema è stata creata un'intera infrastruttura transnazionale. Negli Stati Uniti, abbiamo un inviato speciale del Dipartimento di Stato, a livello di ambasciatore, dedicato alla lotta all'antisemitismo, mentre i governi in Germania, Spagna e Regno Unito hanno creato posizioni simili in quei Paesi. Mentre 20 anni fa, i politici eletti a malapena pensavano all'antisemitismo, ora non passa settimana senza una condanna da parte di un parlamentare o di un membro del governo. “Non esiste un vaccino per l'antisemitismo e la xenofobia”, ha osservato il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, nel gennaio del 2021, commentando le teorie del complotto antisemita che imperversavano al culmine della pandemia di COVID-19. “Ma la nostra arma migliore rimane la verità.” Eppure le persone apparentemente intelligenti, razionali e ponderate trovano estremamente difficile afferrare gli aspetti più basilari di quella verità. Quasi 80 anni dopo la Shoah, con innumerevoli film, documentari e libri sul mercato e musei commemorativi della Shoah, spuntati come funghi nelle città di provincia così come nelle grandi città, si potrebbe pensare che caricature di ebrei con il naso adunco e sordide espressioni facciali, o commenti sugli “ebrei” che possiedono e controllano un’attività o un settore particolari, dovrebbero, immediatamente e senza problemi, essere identificati come antisemiti. Macché. Purtroppo, ci sono molti esempi per illustrare questa mia considerazione, quindi ne sceglierò due dei più recenti. Innanzitutto, in Germania, dove la città di Kassel sta attualmente ospitando la XV edizione del prestigioso festival d'arte moderna, Documenta ; il tema di quest'anno è il “Global South” e il suo curatore è un collettivo artistico indonesiano chiamato ruangrupa. Durante la preparazione del festival nei primi sei mesi di quest'anno, c'è stata una notevole preoccupazione per il sostegno di ruangrupa da parte della campagna antisionista del BDS che cerca di mettere in quarantena Israele dalla comunità internazionale. Ma una volta inaugurato il festival, di fronte all’evidente antisemitismo in stile nazista esposto in mostra, queste preoccupazioni hanno presto lasciato il posto ad una consapevolezza assai più cruda. Un grande murale, montato nel centro di Kassel, intitolato “People's Justice” (“Giustizia del popolo”), raffigurava una galleria di furfanti, con personaggi evidentemente associati alla dittatura di Suharto in Indonesia, tra cui un ebreo ortodosso con il naso adunco e un cappello fedora con in rilievo le lettere “SS”, e un soldato israeliano con la faccia da maiale e con un elmo contrassegnato dalla parola “Mossad”. Circa due settimane dopo lo scandalo del murale, un visitatore della mostra ha scoperto caricature altrettanto antisemite in un opuscolo che celebrava la solidarietà con i palestinesi tra le donne in Algeria. Subdolo? Subdolo come il mio secondo esempio, che coinvolge Miloon Kothari, un membro di quella che è stata chiamata in modo offensivo “Commissione internazionale d'inchiesta indipendente (COI) delle Nazioni Unite sul territorio palestinese occupato, inclusa Gerusalemme Est e Israele”, che, in un'intervista di fine luglio su un sito web visceralmente antisionista, ha affermato che la risposta negativa sui social media alla commissione è stata il risultato della proprietà e del controllo delle piattaforme dei social media da parte della “lobby ebraica”.
Proprio come il murale in mostra in Germania non è andato per il sottile nel contraddistinguere il suo antisemitismo, nemmeno Kothari ha perso tempo con eufemismi come “sionisti” o “potenti interessi filo-israeliani” nel fare un commento sugli ebrei. E proprio mentre il team dirigenziale dietro Documenta si tormentava teatralmente su come riconoscere il dolore e la furia della comunità ebraica tedesca senza alienarsi i colleghi indonesiani, ottenendo scuse così qualificate da non essere vere scuse, le espressioni di rammarico alquanto pompose di Kothari la scorsa settimana possono essere giudicate in modo simile. Interrogata sul murale, Sabine Schormann - la direttrice del festival Documenta che poco dopo si è dimessa sotto il peso dello scandalo - ne ha riconosciuto l'offensività nei confronti degli ebrei, ma ha chiesto comprensione per i suoi creatori, i quali percepivano che “loro erano generalmente sospettati e diffamati e a volte minacciati, a causa della loro origine, del colore della pelle, della religione o dell'orientamento sessuale.” Kothari, nel frattempo, ha scritto una lunga lettera al Presidente del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite in cui ha espresso rammarico per la sua scelta delle parole senza mai riconoscere che queste parole erano antisemite. Erano “scorrette, inappropriate e insensibili”, ha detto, ma il passo davvero significativo - ossia identificare queste parole come una fedele rappresentazione dell'antico tropo antisemita del “potere ebraico” - non è mai stato compiuto. Sì, certo, c'è stata una condanna diffusa sia di Documenta che di Kothari, molta di questa da parte di non ebrei. Ma per quanto gradito sia quel coro, non cambia il fatto che il festival Documenta sia ancora in scena e che nessuno sia stato accusato di istigazione antisemita secondo le rigide leggi tedesche, mentre la commissione delle Nazioni Unite rimane operativa nonostante i numerosi appelli perché chiuda i battenti. Tutto quello che è cambiato attualmente, è che la condanna dell'antisemitismo è più diffusa e più frequente, ma ci sono ancora molti incidenti da condannare. Se non riusciamo a creare un pieno consenso sul fatto che le caricature di ebrei con il naso adunco non sono solo antisemite, ma impregnate del potenziale che portò alla violenza dell'era nazista, o che i disinvolti riferimenti alla “lobby ebraica” ravvivano quelle stesse tendenze, allora non potremo mai avere alcun successo quando si tratta di espressioni più codificate di antisemitismo. Gli educatori ebrei, purtroppo, ora devono concentrarsi sull'estrarre gli intimi legami tra le caricature antisemite del secolo scorso e quelle del nostro tempo. Non possiamo più presumere che la conoscenza di base della Shoah svolga un ruolo immunizzante, soprattutto perché il programma di sterminio nazista svanisce sempre più nei meandri della storia. Proprio come la lotta al razzismo inizia con l'identificazione e l'isolamento delle sue affermazioni più brutali e disoneste (i neri come predatori sessuali “naturali”, gli zingari Rom e Sinti come ladri “naturali” e così via), così lo è con l'antisemitismo (gli ebrei come sfruttatori “naturali” che cinicamente danneggiano gli interessi altrui mentre perseguono i propri). Per quanto sia difficile ammetterlo, abbiamo ancora bisogno di una formazione di base su come identificare e rispondere correttamente all'antisemitismo trasparente e semplice visto alla mostra Documenta e nei commenti di Miloon Kothari. Fino a quando non avremo portato a termine questo compito fondamentale, tutti gli ambasciatori, gli inviati e i membri del parlamento che si mettono in fila per condannare l'antisemitismo rischiano di essere allontanati come il fumo negli occhi.
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate |
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