IC7 - Il commento di Daniele Scalise: Il corpo del nemico
Dal 24 al 31 luglio 2022
L’indiscussa tangibilità del corpo e la sua intrinseca fragilità costituiscono da sempre un’occasione ideale per avversari armati di misera tracotanza. Pensavo a questo nell’ascoltare la onesta quanto accorata confessione di Renato Brunetta, ministro della Pubblica Amministrazione che nella trasmissione di Lucia Annunziata ‘Mezzora in più’ ha dichiarato: “Io non ho scelto di nascere alto o basso. Io son responsabile delle mie idee e di quello che ho fatto, di quello che faccio, della mia storia, dei miei libri. Io son responsabile di questo ma non di essere ‘tappo’ o ‘nano’. Vede che bello, che posso dirlo? Non mi era mai successo, grazie Lucia.” Già un paio d’anni fa l’onorevole Filippo Sensi aveva detto a Maria Teresa Meli del Corriere della Sera: “Sono sempre stato grasso e come tutti i ragazzini grassi ero inseguito da battute, a volte dallo scherno e dalla derisione. È normale che chi è stato sovrappeso abbia subito mortificazioni. Mi chiamavano ‘manzo’. Ma a volte può essere più mortificante della gang di bulli il non riuscire ad allacciare una cintura sull’aereo, oppure dover andare in giro a cercare taglie che non ci sono, o lo sguardo di chi ti vende un paio di pantaloni pensando ‘guarda che per te non ci sono’.” Qualche giorno prima l’ex portavoce di Matteo Renzi aveva raccolto il commosso applauso dei colleghi alla Camera dei deputati dopo aver esposto con convincenti argomenti personali la norma sul ‘body-shaming' e 'fat-shaming', la tendenza cioè di giudicare, oltraggiare o deridere un individuo per una sua peculiarità fisica.
Dei miei anni di gioventù ho un ricordo imbarazzato per aver condiviso le risate collettive, spettatore partecipe e compiaciuto di tanti commedie buffe di Dario Fo, soprattutto di quel ‘Fanfani rapito’ dove l’uomo politico democristiano veniva trasfigurato in un nanerottolo dai piedoni giganteschi come quelli di un pagliaccio, meritevole di ogni insulto e ludibrio perché, come contemporaneamente ci cantava De André, “un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del culo”. Fu una brutta scuola quella che frequentai con infantile ardore e a ripensarci oggi provo una più che giustificata vergogna. Fummo abituati, nella nostra stupida incoscienza, e ci lasciammo abituare, nella nostra ancor più grave complicità, a trasfigurare il corpo dell’avversario e in quella trasfigurazione trovare un elemento ben più decisivo e più facilmente declinabile di una vera battaglia di idee per ingaggiare la quale occorre una cultura coraggiosa, potente, capace di misurarsi e non solo di offendere.
Sugli altarini brillava il santino di Ernesto Che Guevara la cui bellezza distratta, il sigaro tra le labbra, lo sguardo sprezzante, oscuravano le persecuzioni feroci contro i dissidenti e gli omosessuali cubani mentre nel cestino dei rifiuti se ne stava accartocciata l’immagine gibbosa di Andreotti che qualcosa di atroce, con quella gobba e quell’aria storta, stava sicuramente tramando. Là l’ammirazione per il ritratto affilato e la barbetta astuta di Vladimir Ilic Lenin e qui il disgusto per i riccioli oleosi di Gianni De Michelis, assurto a simbolo della velocità di quei maledetti di socialisti che tra i pochi predicavano e praticavano un anticomunismo non di destra. La riprovazione per la mancanza di requisiti fisici però non valeva per tutti. La rotondità del presidente Mao Tze-Tung (allora lo traslitteravamo così) era vista con la rispettosa simpatia che si deve a uno zio pacioccone mentre la miopia che denunciavano le spesse lenti di Ugo La Malfa era la prova provata della sua inessenzialità al punto che quel che diceva non veniva nemmeno preso in considerazione.
L’attitudine ad abbattere l’avversario partendo dalla derisione dei tratti fisici è del resto metodo ben noto in chi si occupa di antisemitismo e di chi legge storia ebraica nel mondo del cristianesimo. La rappresentazione dell’ebreo come essere viscido, curvo, il volto deformato dal nasone, lo sguardo maligno e sfuggente sotto la capigliatura ispida, è un’immagine che ha imperversato in tanta pubblicistica antisemita d’antan e che viene ancora oggi copiata e ripetuta da altrettanta iconografia islamica. Ma non solo. Caricaturisti nostrani, pronti a difendere (e noi più di loro) la libertà di espressione, non si fanno scrupolo nel disegnare un soldato israeliano o un primo ministro dello Stato ebraico con le medesime caratteristiche un tempo attribuite all’ebreo deicida, infido avversario meritevole d’ogni disprezzo e la macchietta diventa facile strumento di trasfigurazione chirurgica per giustificare l’accanimento. Oltre a combattere il body-shaming sarebbe forse utile una riflessione meno ipocrita e più condivisa sullo State-shaming. Ma per questo, temo, dovremo ancora attendere a lungo.
Daniele Scalise