Testata: Corriere della Sera Data: 26 luglio 2022 Pagina: 13 Autore: Giusi Fasano Titolo: «A Bucha, quattro mesi dopo, dove ottocento cadaveri aspettano ancora un nome»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 26/07/2022, a pag. 13, con il titolo 'A Bucha, quattro mesi dopo, dove ottocento cadaveri aspettano ancora un nome' l'analisi di Giusi Fasano.
Giusi Fasano
Bucha
«Oggi ne sono arrivati nove. Noi proviamo a dare un nome a tutti, anche ai russi, quando ce li portano. Ma non sempre si riesce». Maria sta parlando di cadaveri. L’aria che si muove sposta ondate di molecole dall’odore insopportabile, lei indica i sacchi al sole in attesa dei refrigeratori, davanti all’obitorio, e dice che «sono lì perché i venti frigoriferi dentro sono pieni». Poi spiega che «la maggior parte dei riconoscimenti avviene attraverso oggetti, qualche lembo di pelle con tatuaggio, a volte i vestiti». Va così, a Bucha. Quattro mesi dopo la liberazione, a 117 giorni da quando l’ultimo soldato russo ha lasciato questo territorio, Maria — 35 anni, medico legale — si ritrova ancora, ogni santo giorno, a fare autopsie alle vittime del mese più barbaro che la città abbia mai vissuto. L’invasione era cominciata da poche ore quando le truppe di Putin in arrivo da nord avevano puntato Kiev. Bucha — come Irpin, Borodyanka, Horenka, Makariv — era sulla loro rotta, e già il 27 febbraio il rumore dei primi carri armati, le prime esplosioni avevano risuonato per le vie del centro. In molti erano riusciti a fuggire, per tutti gli altri le cantine erano diventate bunker fino al 31 marzo, il giorno della liberazione. Com’è andata a finire lo abbiamo visto tutti. Dopo.
L’immagine di Yablonska Street lastricata di morti ha fatto il giro del mondo; sono nella memoria collettiva le persone giustiziate con le mani legate dietro la schiena; abbiamo visto il filmato di un gruppo di uomini che camminano in fila indiana fino al luogo dell’esecuzione e abbiamo visto l’orrore delle fosse comuni. Con il tempo si è chiarito che alcune di quelle fosse sono state scavate dagli stessi residenti che hanno seppellito i cadaveri in parchi e giardini per toglierli dalle strade. Il che non sposta di una virgola le responsabilità di quei morti, gli ultimi sette disseppelliti a metà giugno nel villaggio di Myrotske: mani legate, segni di torture e ferite di arma da fuoco alle ginocchia. Fra loro c’era anche Artur Rudenko, classe 1995, in questi giorni avrebbe voluto sposare la sua Katya. Lo hanno visto l’ultima volta a Bucha mentre andava dal nonno a portargli delle medicine, il 12 di marzo. Poi più nulla. Il suo corpo è stato ritrovato il mese scorso, ma a casa sua la polizia ha avvisato tre giorni fa: «Lo abbiamo trovato, potete seppellirlo». Maria ha scritto il suo nome sull’etichetta rosa del sacco e Artur se n’è andato per sempre. La sua bara coperta da una montagna di fiori, l’addio davanti a duecento persone. Sua zia Olena ha chiamato l’ufficio della polizia: «Come mai ci è voluto così tanto tempo a identificarlo?» Risposta: «Troppo lavoro, nella regione di Bucha abbiamo ancora 800 cadaveri a cui dare un nome». Il sindaco della città, Anatolii Fedoruk, ricorda al mondo che «fra i miei cittadini finora abbiamo contato 419 morti». Ci tiene molto a ricordare che «la mia Bucha è stata l’avamposto della resistenza per fermare l’avanzata verso Kiev» e che «ancora adesso non possiamo andare nella foresta e nei campi perché è pieno di mine». E però malgrado tutto prova a vedere il bicchiere mezzo pieno. Dice che «più tempo passa più si vede che Bucha rinasce, che la gente torna». Niente a che fare con gli oltre 35 mila abitanti che vivevano qui prima della guerra. Adesso si stima ci siano 13 mila persone, che è già un gran passo avanti rispetto ai 3.500 circa rimasti durante l’occupazione. Il sogno più grande? «La pace» risponde il sindaco senza esitazione. «Sogno di non sentire mai più le sirene d’allarme e vivere in pace con la mia gente fino alla fine dei miei giorni». Intanto dietro la «Saint Andrew Pervozvannoho All Saints», la chiesa centrale, l’erba alta copre le tracce della terra smossa. A ricordare che lì dove fu ritrovata una gigantesca fossa comune adesso c’è una croce di ferro e una lapide sulla quale qualcuno ha lasciato fiori e pupazzetti. Lungo la via dei morti e della vergogna le tracce di quei giorni disgraziati sono in piccoli cumuli di macerie davanti a case abbandonate oppure in un paio di auto semidistrutte lasciate a bordo strada. Chi può — che da queste parti vuol dire: chi ha potuto tornare al lavoro — sta ricostruendo quel che i russi hanno distrutto. Non in centro città dove, nei palazzi squarciati dai colpi di artiglieria e anneriti dal fumo, è tutto fermo a marzo. L’ipermercato raso al suolo (altra immagine icona di questa guerra) è ancora come appena dopo il bombardamento, ma ai suoi piedi si scarica materiale che servirà a ricostruire. «A fine guerra», dice l’addetta alla sicurezza. «Quindi chissà quando..».
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