Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 21/07/2022, a pag. 38, con il titolo "Rimuovete Gaza Guernica da Documenta", l'intervista di Tonia Mastrobuoni.
Tonia Mastrobuoni
Felix Klein
La Documenta di Kassel «è stata un fallimento». Mesi di polemiche per artisti considerati troppo legati al movimento di boicottaggio di Israele BDS, culminati nell’esposizione di un’installazione, La Giustizia dei popoli , che associava il Mossad alle SS e attingeva agli stereotipi nazisti per dipingere gli ebrei. Una delle più importanti mostre del mondo è precipitata in una crisi abissale. L’installazione è stata rimossa e sabato si è dimessa la direttrice, Sabine Schormann. Ma per Felix Klein, sottosegretario tedesco all’Interno e Responsabile per la lotta all’antisemitismo, non basta. Klein chiede la rimozione di tutte le opere e gli artisti antisemiti. E pretende più ruolo dello Stato, che finanzia generosamente Documenta, e controlli veri su ciò che viene esposto. Klein si chiede quanto sia stata “paternalistica” la scelta di affidare al collettivo indonesiano Ruangrupa una mostra senza alcun controllo dei contenuti. Se è stata lodevole l’idea di offrire uno sguardo sul “sud globale”, non lo è stato quello di disinteressarsi delle opere: l’antisemitismo è globale, avverte l’ex console di Milano. E «non può avere spazio in Germania, specialmente nelle mostre finanziate dallo Stato».
Klein, è giusto che la direttrice generale di Documenta, Sabine Schormann, abbia dato le dimissioni? «Sì. È stato uno scandalo annunciato. Dall’inizio dell’anno si sapeva che artisti antisemiti e vicini al movimento di boicottaggio di Israele BDS sarebbero stati presenti. Schormann aveva garantito una mostra senza antisemitismi. Non ha mantenuto quella promessa. In generale, l’impressione è stata che non abbia mai controllato nulla. Anche dopo che la controversa installazione La Giustizia dei popoli era stata esposta, ha gestito in modo catastrofico la crisi. Le sue dimissioni possono essere solo un primo passo. Adesso mi aspetto conseguenze strutturali».
Cosa vuol dire? «Per l’attuale Documenta è importante che si verifichi se ci sono altri casi di antisemitismo – sia per quanto riguarda le opere sie gli artisti. Non si tratta di applicare lacensura o di chiedere esami di coscienza. Ma l’antisemitismo non può avere spazio in Germania, specialmente nelle mostre finanziate dallo Stato. Mi aspetto che il nuovo direttore, Alexander Farenholtz, se ne occupi».
Ha in mente delle opere specifiche che dovrebbero essere rimosse? «Sì. Ad esempio il dipinto Gaza Guernica che equipara le attività dell’esercito israeliano a quelle della Wehrmacht e rappresenta soldati israeliani da una parte e dall’altra alcuni palestinesi poveri e spaventati. Il parallelismo con la distruzione di Guernica da parte della Wehrmacht nella Guerra civile spagnola è palese e problematico. È antisemitismo che relativizza i crimini dei nazisti».
Non è censura, la sua? «No. La libertà artistica finisce là dove si ledono i diritti fondamentali delle persone. Non è consentito neanche rappresentare scene di pedopornografia, per dire. Stiamo parlando di diritti fondamentali concorrenti in una società liberale che devono essere ben ponderati».
Come sono potuti accadere questi errori? L’idea di questa edizione sembrava innovativa: rivolgere lo sguardo all’arte del cosiddetto “sud del mondo”. Pensa che il problema sia quello di un antisemitismo ormai globalizzato? «Sì, esatto. Anche io ritengo che l’idea di fondo fosse buona. Ma purtroppo l’antisemitismo è unproblema internazionale. E proprio nel “sud del mondo” l’antisemitismo antisraeliano è molto diffuso e penetra anche gli ambienti progressisti, il centro della società. Spesso gli ebrei vengono associati ai crimini coloniali o allo sfruttamento capitalistico. E ciò è molto, molto preoccupante. Soprattutto in un Paese come l’Indonesia, che non ha neanche rapporti diplomatici con Israele».
Indonesiano è il collettivo che ha creato l’installazione controversa, “Taring Badi”. Che ha giustificato quelle immagini sostenendo si trattasse di una critica al dittatore indonesiano Suharto, che fu sostenuto dall’Occidente. «Una critica assolutamente condivisibile. Ma che non doveva essere accompagnata da simboli antisemiti e scritte delle SS».
Come dovrebbe cambiare Documenta? «Dalle fondamenta. Alla luce della sua importanza internazionale, lo Stato dovrebbe avere un ruolo maggiore: adesso ha due posti su dodici nel consiglio di sorveglianza. Ed erano pure vacanti per la frustrazione di non poter minimamente influire sulla mostra. È incredibile che siano stati stanziati 3,4 milioni di euro di soldi pubblici senza fare nomine nel consiglio. Le responsabilità dovranno essere chiarite. Se si investono soldi pubblici deve essere chiaro sin dall’inizio che non si finanzia alcuna forma di antisemitismo».
Dunque pensa che ci siano ancora delle responsabilità politiche da chiarire? È d’accordo con chi chiede le dimissioni della sottosegretaria alla cancelleria per la Cultura, Claudia Roth? «Claudia Roth ha ereditato una situazione complessa. Ma il sindaco di Kassel, Christian Geselle, che è anche presidente del consiglio di sorveglianza, deve chiarire. Deve capire come sia stato possibile arrivare all’esposizione della controversa installazione antisemita. Il suo ruolo è cruciale. Nessuno aveva visto quel dipinto, apparentemente. Incredibile».
Pensa sia stato un errore affidare tutto al collettivo dei curatori Ruangrupa senza controllare nulla? «Assolutamente. C’è anche qualcosa di paternalistico in questa mancanza di controlli, come se non fossero stati presi troppo sul serio. Non penso che ci si sarebbe comportati allo stesso modo se il collettivo fosse stato italiano o tedesco. Una mostra internazionale così importante, soprattutto se ambisce a rappresentare il punto di vista del “sud globale”, avrebbe bisogno di una grande sensibilità interculturale. Ed è esattamente ciò che è mancato. Ecco perché i responsabili di Documenta hanno fallito».
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