domenica 22 settembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
05.02.2003 Un testimone in una intervista eccezionale
Intervista all'uomo che diede a Ilan Ramon la piccola bibbia sulla quale pregava a Bergen Belsen

Testata: La Stampa
Data: 05 febbraio 2003
Pagina: 9
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Dai campi di sterminio allo spazio la mia Torah sul cuore del dolce Ilan»
Riportiamo un articolo di Fiamma Nirenstein pubblicato su La Stampa mercoledì 5 febbraio 2003.
Joachim Yoseph ha la dolcezza degli scienziati innamorati della loro missione. Arriva adesso da Houston, Texas. Con i capelli ancora un po' fulvi, porta i suoi 71 anni con vigore e signorilità, ma appare stanco e molto triste: ,, ha vissuto anni a stretto contatto con gli astronauti, in particolare con Ilan Ramon. In più, Ilan per lui ha compiuto una missione grande come quella scientifica affidatagli: aveva portato nello spazio con sé un piccolo rotolo della Torah e l'aveva mostrato a tutto il mondo; non una Bibbia qualunque, ma quella miniata e tenuta segreta che Joachim aveva usato, tredicenne, nel campo di concentramento di Bergen Belsen per imparare a leggere la porzione della Torah del suo Bar Mitzvah, la sua maggior età religiosa.


Quando a Houston si è cominciato a capire che qualcosa non andava, lei era nella sala controlli?

«Io e gli altri sei israeliani nella missione scientifica eravamo nella sala ventiquattro ore su ventiquattro, in tre turni, da due settimane, ovvero dal decollo del Columbia; e da più di due anni e mezzo vivevamo giorno dopo giorno con tutto il gruppo degli astronauti, con Ilan e gli altri, uno a uno personaggi eccezionali, legati fra di loro, a noi e allo straordinario gruppo della Nasa come una vera famiglia. Era molto più che lavorare insieme: discutevamo, ridevamo, e gli astronauti erano felici che gli esperimenti programmati li mettessero in un ruolo scientifico molto attivo».

Le pare verosimile quello che si mormora adesso, ovvero che già si sapesse, a Houston, che il Columbia dall' impatto dell'ala sinistra fosse ad altissimo rischio? E che ciò non sia stato detto?

«Conoscendo l'integrità e la sensibilità di chi lavora in quel gruppo e la legge per cui la sicurezza viene prima di tutto, non lo credo affatto. Posso dire però che un secondo dopo che è stato dato l'annuncio della perdita del contatto, ho saputo che era finita. Il pericolo di queste missioni è ancora elevatissimo».

Esclude che gli astronauti, magari all'ultimo, fossero consapevoli, almeno in parte, della sorte che poteva aspettarli?

«Nello specifico, anche se ovviamente non lo so, lo escluderei per il senso di ottimismo e di vitalità che trasmettevano ogni minuto. Certo, gli astronauti sanno che siamo ancora in una fase pericolosissima: ciascuno di loro si fa fare i test per il Dna proprio perché il caso di morte è ben preso in considerazione. E tuttavia in questa gente coraggiosa il buon umore, l'ottimismo, la fede sono predominanti. Io scrivevo agli astronauti una poesia al giorno, e loro rispondevano in rima. L'ultima poesia a Ilan era su come avrebbe saputo portare nello spazio la Torah come simbolo della resistenza ebraica persino nei campi di sterminio, della volontà di sopravvivenza. Era su quanto fosse stato bravo e coraggioso a spiegare la nostra nazione e la nostra tradizione così potentemente, illustrandole con tanti simboli del nostro popolo».

Racconti la storia del suo piccolo rotolo perduto.

«Sono nato ad Amsterdam, in Amteellaan 97. Anche Anna Frank era là, e io l'ho conosciuta. Era una ragazza poco più grande, non mi guardava nemmeno. Ci siamo sfiorati prima delle persecuzioni e della deportazione, vivevamo vicini e nella comunità ebraica. Lei fu uccisa dagli stenti, dalle botte dei tedeschi, dalla malattia. Io sono stato trasportato a Bergen Belsen, con mio fratello Dov, mio padre Julius, mia madre Felicia e con il resto di una vasta famiglia. Tutti sono stati sterminati salvo noi quattro: abbiamo poi scelto la strada di Israele».

Chi le dette la piccola Torah?

«Nella baracca mi chiamò da parte un rabbino di nome Dasverg, e mi disse: "Tu hai 13 anni: ti insegnerò a cantare la Torah per il tuo Bar Mizva". Io non ero religioso, ma capii com'era importante quello a cui ero stato chiamato. Il rabbino disse anche: "Voglio però che tu poi racconti la storia, come simbolo della resistenza del popolo ebraico". La gente moriva intorno a noi, eravamo testimoni dello sterminio del nostro popolo. Un martedì alle 4 di mattina, prima della sveglia, gli altri deportati misero le coperte sulle finestre, accesero delle candele e io cantai la mia porzione della Torah, come ogni bambino ebreo nei secoli. Poi Dasverg mi disse: io non uscirò vivo di qui, prendi il rotolo con te e racconta la storia».

Molto più tardi, l'incontro con il colonnello Ilan Ramon, astronauta, pilota nella missione che distrusse il reattore nucleare iracheno nell'81.

«Nel 1950 scrissi in inglese tutta la storia del rotolo sul giornale Jerusalem Post, e poi tacqui fino a dieci anni fa. Non ho mai voluto adagiarmi sulla sofferenza, sui ricordi insopportabili della Shoah. Ma quando i miei nipoti sono stati abbastanza grandi, ho raccontato di nuovo tutto e ho costruito un piccolo armadio tradizionale, come quelli che contengono i rotoli nelle sinagoghe, e l'ho messo nello studio, sulla libreria. E' qui che arrivò il colonnello Ramon. Abbiamo passato tanto tempo insieme, gli ho insegnato gli esperimenti scientifici; era la persona più gentile e comunicativa che abbia conosciuto. Un giorno venne a trovarmi a Tel Aviv, vide l'armadietto, mi domandò: "Che cos'è?". Dopo che glielo spiegai, ci pensò qualche mese. Ha portato il rotolo nel cosmo per lo stesso motivo per cui Dasverg me l'aveva dato, per mostrare lo spirito di resistenza degli ebrei. Lui stesso era figlio e nipote dei sopravvissuti di Auschwitz. Mi disse: "Te lo riporterò, ma ti chiedo di prestarmelo a maggio,per il Bar Mitzvah di mio figlio"».

Professore, come sta adesso? Ha perso la sua missione, il suo amico, la Torah.

«In realtà, nel grande dolore, sono invece contento e pieno di fiducia. Ilan sarebbe felice dell'importanza dei risultati degli esperimenti, che abbiamo raccolto a terra per l'80 per cento. La missione scientifica è riuscita. Quanto alla Torah, tutto il mondo l'ha vista, ha compiuto la sua missione. E' venuta dal buio più profondo, Ilan l'ha portata nella luce smagliante dello spazio».

Quali sono gli esperimenti importanti di Ilan e degli altri?

«Vari: per esempio, molto importante quello sulla polvere desertica nello spazio, perché aiuta a capire l'effetto serra che in parte deriva proprio dai movimenti delle nuvole di sabbia. Importantissimi gli esperiementi notturni sulle grandi tempeste di fulmini. Lei sa che cinque o sei Paesi del Mondo sono già parte di progetti per la produzione della loro energia nello spazio?»

Non lo sapevo. E neppure che questi viaggi siano così importanti, più della vita umana.

«Non sono più importanti: sono semplicemente parte della vita umana, si svolgono a suo favore col rischio che le grandi imprese umane hanno sempre comportato. Bisogna continuare, riprendere subito, e abbiamo già anche pronto il prossimo candidato israeliano allo spazio».

Ilan parlava con lei di politica? Ha detto dall'astronave: «Il mio Paese dall'alto è così piccolo e bello, e appare finalmente quieto». Ilan sognava la pace?

«Ilan era realista, intelligentissimo, buono, non si illudeva su soluzioni miracolistiche. Parlavamo della situazione, ma non in termini politici. In generale lui pensava come me: che bisogna stare saldi e quieti, mostrare ai nostri vicini che non devono temere danno da noi, e che nello stesso tempo non si devono illudere di schiacciarci con la forza».

Qual è l'ultimo ricordo di Ilan?

«Aveva fatto una bellissimo esperiemento e io gli ho detto in ebraico: "Kol ha cavod", complimenti, bravo. E lui ha risposto: "Grazie, Todà". Aveva negli occhi quello scintillio ottimista che gli ho visto sempre e nelle maniere una gentilezza inesauribile e costante. Faceva tutti felici».
Invitiamo i lettori di informazionecorretta.com ad inviare il proprio plauso alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT