'Dopo l’esilio', di Georges-Arthur Goldschmidt Recensione di Giorgia Greco
Testata: Informazione Corretta Data: 19 luglio 2022 Pagina: 1 Autore: Giorgia Greco Titolo: «'Dopo l’esilio', di Georges-Arthur Goldschmidt»
Dopo l’esilio
Georges-Arthur Goldschmidt
Traduzione di Alessandra Luise e Sarina Reina
Giuntina
euro 14
“Tu proverai sì come sa di sale Lo pane altrui, e come è duro calle Lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale” Dante Alighieri, La Divina Commedia, XVII canto, Paradiso
L’esilio, la nostalgia per la propria Heimat, la lingua francese, idioma della salvezza e della resistenza al nazionalsocialismo in contrapposizione alla lingua della persecuzione, sono alcune delle tematiche che Georges Arthur Goldschmit sviluppa nel breve ma denso saggio che la casa editrice Giuntina pubblica nella prestigiosa collana “Schulim Vogelmann” con il titolo “Dopo l’esilio”.
Uno degli autori cardine della letteratura francese e tedesca post Shoah oltre che traduttore dal tedesco al francese, Georges Arthur Goldschmidt nasce da genitori di origini ebraiche convertitisi al protestantesimo. Il padre è giudice, ma a causa dell’ascesa del nazismo e dell’entrata in vigore delle Leggi di Norimberga dal 1935 non può più esercitare la professione e nel 1938 le discriminazioni e il clima antisemita – ci racconta l’autore nel libro – sono tali da costringere i genitori a far emigrare Georges Arthur insieme al fratello maggiore prima a Firenze e poi in Francia, in un collegio dell’Alta Savoia, dove rimane fino al conseguimento del diploma nel 1946. Dopo gli studi di lettere, germanistica e filosofia alla Sorbona si trasferisce nei pressi di Parigi per lavorare come traduttore e insegnante diventando celebre grazie alle sue traduzioni di autori quali Kafka, Goethe, Nietsche. E’ infatti solo attraverso la lingua tedesca letteraria che Georges Arthur Goldschmit ritrova l’interesse per la lingua madre e la tensione fra questa, considerata perduta e poi riacquisita, e la lingua della salvezza e della rinascita, il francese, permea in vario modo non solo il saggio “Dopo l’esilio” ma anche il suo precedente lavoro “La linea di fuga” (Donzelli, 2010), primo libro scritto in tedesco a 63 anni: una narrazione autobiografica che ripercorre gli anni del passaggio dall’infanzia all’adolescenza.
Cosa sarebbe l’uomo senza il senso di appartenenza alla propria Patria, senza quel legame profondo che si nutre dei primi veri affetti che hanno dato forma alla sua esistenza? Allo sradicamento, concetto complesso e flessibile, l’autore dedica pagine di rara intensità constatando come “l’esilio divida la vita in due metà d’ora in avanti incompatibili: il prima e il dopo”. La lingua madre diventa una lingua segreta da serbare in sé non essendo permessa esibirla e diventa imprescindibile fotografare la Heimat in modo così preciso da conservare interiormente i tratti fondamentali quale griglia dei sensi.“L’esilio – scrive Goldschmidt – è quell’istante in cui, in un momento senza tempo, la presenza si ribalta in assenza, è un confine ben tracciato e invalicabile che separa non solo il tempo di una volta dall’oggi, il presente dal passato, ma anche due diverse visioni di sé, due diversi orizzonti di sé, che tuttavia formano un insieme chiuso”.
Sul tema della lingua tedesca l’autore non ha dubbi sul fatto che i nazisti abbiano profanato per sempre la lingua della sua Heimat e che il nazionalsocialismo abbia reso impossibile il suono armonioso, lo slancio interiore, il tono romantico della lingua. Di converso però ci sono le parole liberatrici che albergano nella lingua del paese di accoglienza, mentre dal tedesco si è sentito ripudiato. La conversione non ha salvato la famiglia Goldschmidt dalle persecuzioni naziste e - si chiede l’autore- “Cosa si prova a essere ebreo quando non lo si è pur essendolo?”. Poiché l’ebraicità viene determinata anche dall’esterno, “ebreo è non solo chi si professa tale o viene educato nel credo ebraico fin dalla nascita, ma anche chi discende da antenati ebrei, pur non appartenendo a quella fede da molto tempo – cose del genere non sfuggono mai a chi poi decide della vita e della morte”.
Alle riflessioni sull’esilio, sulla lingua e sulla nostalgia “quel qualcosa che sale strisciando su per la gola fino a che le lacrime sgorgano orizzontali dagli occhi”, l’autore alterna il racconto dei momenti salienti della propria infanzia che hanno preceduto la partenza da Amburgo e quelli dell’adolescenza, anni difficili e delicati, caratterizzati dall’acuta sensibilità di Georges Arthur e dall’estrema tensione che gli eventi bellici portano con sé insinuandosi anche all’interno del collegio francese di Annecey (dove arriva dopo il periodo trascorso a Firenze), inquinando un microcosmo dedito, solo in apparenza, all’educazione dei giovani. In realtà il ragazzo, ritrovandosi senza il fratello maggiore, subisce le peggiori angherie e sevizie da parte degli educatori e dei compagni, diventando la vittima preferita delle loro prepotenze. Tuttavia, nel momento in cui il dolore esplode nel corpo martoriato e umiliato dalle percosse, Georges Arthur scopre anche il potere misterioso del piacere che proprio nel corpo dimora.
In una quotidianità che gli eventi della guerra rendono precaria, si aggrappa alla nuova Heimat, amplia e consolida lo spazio del proprio essere e alla fine la sua vita sarà salva grazie a famiglie di contadini che lo nascondono tra i monti della Savoia fino al termine della guerra e il racconto di quell’esperienza salvifica diventa testimonianza della generosità di chi ha saputo agire secondo coscienza.
L’unicità di questo saggio, la cui cifra linguistica riesce a toccare inaspettate vette poetiche, risiede anche nei frequenti salti narrativi che lo percorrono, nell’analisi profonda delle ripercussioni che l’esilio e l’allontanamento dalla famiglia possono generare nella psiche di un adolescente, nella scoperta della libertà nel nuovo paese, nel piacere che nasce dalla visione delle montagne alpine e dei fitti boschi che lo circondano e nella gioia di scoprire giorno dopo giorno un’immagine nuova del paese che lo ha accolto e salvato.
Il libro si chiude con un messaggio di profonda gratitudine che riassume il percorso compiuto dall’autore da quel lontano 18 maggio 1938 in cui fu costretto a lasciare la Germania: “Sebbene l’anima del paese, della lingua, dei paesaggi, dell’arte fosse diventata la sua anima, la nostalgia c’era e ci sarebbe stata per sempre, anche se ormai solo come pittoresco ricordo: grazie alla Francia e all’amata moglie, il dolore per la perdita della Germania era superato per sempre”.