Ora anche contro l’Arabia Saudita il trucco palestinese di usare parole che negano la legittimità
Analisi di Dana Ben-Shimon
(da Israele.net)
Dana Ben-Shimon
Abu Mazen
Il linguaggio usato di recente dai rappresentanti palestinesi indica che continua ad aumentare l’ostilità fra l’Autorità Palestinese e la Casa Saud, la famiglia reale al potere in Arabia Saudita. Le tensioni tra Ramallah e Riad sono aumentate in occasione della visita in Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti Joe Biden con il preannunciato volo diretto del presidente americano da Tel Aviv a Gedda. Giacché si tratta del primo volo in assoluto di questo genere, i palestinesi lo vedono come un segnale del disgelo in corso tra lo stato ebraico e la potenza del Golfo. Il re saudita Salman ha ripetutamente affermato che Riad non firmerà la pace con Israele fino a quando non sarà risolto il conflitto israelo-palestinese. Tutte le principali fonti a Ramallah riferiscono che i rapporti sempre più calorosi fra Israele e Arabia Saudita vengono percepiti dalla dirigenza palestinese come un tradimento del principi stabiliti nell’Iniziativa di pace araba del 2002 (che, come precondizione al riconoscimento arabo di Israele, esigeva il ritiro di Israele sulle linee del ’49, il cosiddetto diritto al ritorno dei profughi e uno stato palestinese con Gerusalemme est come capitale ndr). Un ulteriore segnale della tensione crescente fra palestinesi e sauditi appare evidente in un recente cambiamento nel modo in cui mass-media ed esponenti palestinesi fanno riferimento al Regno, che adesso evitano di citare con il suo nome moderno. In Arabia Saudita si trova la Mecca, la città più sacra dell’islam. Ogni anno milioni di musulmani si recano alla Mecca per celebrare il pellegrinaggio hajj, un dovere religioso che i musulmani sono chiamati a svolgere almeno una volta nella vita. Ma quest’anno le trasmissioni televisive palestinesi che parlando del pellegrinaggio hanno utilizzato il termine “al-diar al-Hejaziya” cioè “la terra di Hejaziya”, invece di usare i nomi “Saudia” o “Regno saudita”. Il termine, che risale al VII secolo e.v., non si riferisce all’Arabia Saudita nel suo insieme, ma solo alla sua parte occidentale dove venne creato l’Emirato di Diriyah, il primo stato saudita, dal capo tribù Muhammad bin Saud. È anche il termine usato dai soggetti che si oppongono alla famiglia reale, come l’Iran e la Fratellanza Musulmana, per esprimere il fatto che non riconoscono il diritto della Casa Saud di governare sulla potenza del Golfo. La famiglia reale prende molto sul serio l’uso di tale linguaggio, poiché lo vede come un tentativo di minare la legittimità del suo governo. Si tratta di un uso del linguaggio che ricorda l’abitudine palestinese di riferirsi spesso a Israele con i termini “entità sionista” o “entità occupante” per negare legittimità alla sua stessa esistenza. I funzionari di Riad sono convinti che il recente ricorso a quel termine da parte dei mass-media palestinesi sia intenzionale, ipotesi rafforzata dal fatto che il consolato palestinese a Gedda ha usato di recente il termine sulla sua pagina Facebook, e che tale uso faccia parte della campagna diffamatoria lanciata da Ramallah contro l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, questi ultimi due attaccati perché fanno parte degli storici Accordi di Abramo sottoscritti con Israele. Attivisti sauditi e funzionari vicini al regime hanno reagito senza risparmiare colpi, organizzando un attacco verbale senza precedenti contro l’Autorità Palestinese e i suoi rappresentanti a partire dall’accusa al presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen d’aver abbracciato una “politica anti-saudita su ordine dei suoi padroni in Iran”. Il comportamento di Ramallah è particolarmente irritante per Riad dato che l’Arabia Saudita è uno dei principali paesi donatori dell’Autorità Palestinese, alla quale ha donato oltre 6,5 miliardi di dollari negli ultimi due decenni. Tra il 2000 e il 2020, Riad ha stanziato circa 250 milioni di dollari all’Unrwa rendendo il regno saudita anche uno dei principali donatori dell’agenzia Onu per i profughi palestinesi. Come ha detto un alto esponente palestinese a Israel HaYom, “quand’anche si sia trattato di un semplice ‘errore’, Abu Mazen dovrà scusarsi coi sauditi se vuole evitare una crisi peggiore”.
L’edizione dello scorso fine settimana della rivista saudita Al Majalla (con sede a Gedda, edita a Londra in arabo, inglese e persiano) ha pubblicato un reportage di copertina assai insolito nel mondo arabo: un articolo positivo sugli arabi israeliani che prestano servizio nelle Forze di Difesa israeliane.
L’articolo descrive un battaglione di truppe da combattimento che si riunisce una mattina presto nel deserto del Negev. “Eppure – continua il pezzo – questi non sono i soliti soldati, ma arabi che hanno scelto di arruolarsi volontari per combattere e persino sacrificare la propria vita a difesa dello stato di Israele. Questi giovani, tra cui anche donne, sono fieri di far parte dell’esercito israeliano. Uno di loro, A-Raqib Imad, dice con orgoglio: ‘È un grande onore tenere un’arma in una mano e il Corano nell’altra per difendere la mia patria, Israele’.” L’articolo dice anche che i grandi mass-media sbagliano nel presentare l’esercito israeliano dando l’errata impressione che rappresenti solo ebrei israeliani mentre invece, osserva il giornale saudita, le Forze di Difesa israeliane rappresentano tutti gli israeliani: ebrei, musulmani e drusi. Uno degli intervistati è il maggiore Ella Waweya, una araba che attualmente serve come vice portavoce militare in arabo. L’articolo sottolinea che è stata promossa maggiore nel 2021, diventando la prima donna araba musulmana a ricoprire quel grado nella storia delle forze armate israeliane. “Nei primi 18 mesi [del mio servizio] – dice Ella al giornale – ho tenuto segreto il fatto che mi ero arruolata. Ma quando ero in licenza, un fine settimana, mia madre è entrata nella mia stanza senza bussare e ha trovato l’uniforme. L’ha guardata, mi ha guardato e ha iniziato a piangere. Ma piano, così nessuno avrebbe sentito”. Ci è voluto un anno e mezzo prima che il padre di Ella le perdonasse la decisione, ma alla fine sia lui che sua madre hanno accettato la scelta della figlia e hanno persino espresso orgoglio per il fatto che sta servendo nell’esercito. L’articolo non nasconde l’opposizione di molti, nella comunità arabo-israeliana, al fatto che alcuni di loro si arruolano nelle Forze di Difesa israeliane, citando in particolare la ex parlamentare araba-israeliana Hanin Zoami che ha detto: “Israele aspira ad arruolare i poveri e i disoccupati per farli lavorare nell’esercito. Il 90% degli arabi che prestano servizio nell’esercito non sono necessari per la difesa di Israele. È una questione politica”. A queste parole, il giornale contrappone quelle di Alaa Hassan Kaabia, un arabo israeliano che ha trascorso due decenni nell’esercito raggiungendo il grado di tenente colonnello. “Le Forze di Difesa israeliane sono un’istituzione dove non c’è discriminazione e c’è totale uguaglianza e integrazione – dice Kaabia, che ora è vice portavoce per i mass-media arabi presso il Ministero degli esteri – Non è vero che le persone si arruolano solo per motivi economici. La maggior parte degli arabi israeliani che si arruolano nell’esercito lo fanno per un motivo: vogliono essere pienamente parte del paese. Vogliono integrarsi nella società civile e avere migliori opportunità”. (Da: Israel HaYom)
L’Arabia Saudita ha respinto ripetute richieste da parte del presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen di essere ricevuto nel Regno prima della visita del presidente degli Stati Uniti Joe Biden in Israele, Cisgiordania e Arabia Saudita. Secondo un reportage della tv Canale 12, che non cita fonti, Abu Mazen avrebbe chiesto più volte invano ai sauditi di riceverlo prima del viaggio di Biden. Infine, qualche giorno fa, gli è stata concessa una breve conversazione telefonica con re Salman, ma nessuna visita. (Da: Times of Israel)