Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 15/07/2022, a pag. 22, con il titolo "Il gulag dietro la cortina di fuoco", l'analisi di Federico Fubini, Andrea Nicastro.
Federico Fubini
Andrea Nicastro
Non c’è più una cortina di ferro a spezzare l’Europa, ma una di fuoco: corre lungo i duemila chilometri del fronte ucraino, dalla regione di Kherson nel Sud a quella di Kharkiv al Nord del fronte. Ciò che accade nella guerra combattuta è reso chiaro, se non altro, dalle distruzioni. Invece il dramma che si sta consumando dietro quella cortina di fuoco — nei territori ucraini occupati dalla Russia — non può essere visto da chi è fuori e solo a fatica e a grande rischio personale è testimoniato da chi lo vive. Gli abusi, le minacce, le violenze o la sottrazione dei beni e della stessa identità ucraina non possono essere verificati in modo indipendente, perché i racconti arrivano da terre inaccessibili. Ma il Corriere ne ha raccolto un numero significativo, tutti convergenti a comporre il quadro di un territorio sconvolto da quattro forze che perversamente coesistono: russificazione, oppressione poliziesca, sfruttamento e un ceto emergente di collaborazionisti ucraini al servizio dei nuovi padroni.
L’oppressione
Il 10 giugno il capo dell’«amministrazione civile transitoria dell’Oblast di Kharkiv» (nella parte occupata della regione) ha emanato un ukase su carta intestata con l’immagine dell’aquila zarista a due teste. Annuncia l’entrata in vigore della legge marziale russa, la quale dà alle autorità il potere di imporre lavori forzati, il sequestro delle proprietà private e la coscrizione al lavoro per i cittadini oltre i 14 anni. A Kherson l’amministrazione «civile-militare» il 12 luglio ha pubblicato un invito alla delazione. Si promette che le denunce resteranno anonime purché riguardino «persone osservate in attività sospette, interpretabili come spionaggio di individui, palazzi, oggetti oppure che gestiscono siti o canali di chat antirussi». Chi denuncia «riceverà un sostanzioso premio monetario». Non sembrano minacce vuote. Il governatore di Zaporizhzhia, Oleksandr Starukh, vive all’estremità del territorio ucraino libero e raccoglie testimonianze di fuggitivi o voci dall’altra parte. Dice: «Dall’inizio della guerra nel nostro Oblast ci sono stati 400 rapimenti. Gente che si mostrava perplessa, capace di pensiero autonomo o riluttante a collaborare. Alcuni sono stati liberati dopo essere stati torturati, altri non sono tornati. Tanti sono imprenditori. Dove comandano i russi — aggiunge Starukh — gli ucraini sono trattati da schiavi». Perché l’oppressione poliziesca non è mai fine a se stessa: serve a paralizzare nel terrore e ridurre al silenzio, ma anche al dispiegarsi di una vasta rete di sfruttamento.
Il lavoro e le risorse
Borova è un centro di 16 mila abitanti nell’area di Kharkiv, dove i russi sono arrivati in aprile. All’area sono stati assegnati un comandante civile bielorusso, Andrei Semashko, e uno militare russo di nome Sergei Razdorozhny. Il loro primo atto è stato minacciare di morte chi avesse dato sepoltura ai soldati ucraini rimasti sul terreno e ora i piccoli ladri vengono pestati in piazza. Ma il gesto più carico di conseguenze è stato l’invito ai lavoratori delle funzioni essenziali — acqua o luce — a tornare nelle loro aziende a una condizione precisa: lavorare gratis. La testimonianza viene dai pochi fuggitivi e da un canale di Telegram alimentato da abitanti di Borova spintisi fino a un caffè di Svatove, a 60 chilometri, dove si trova il più vicino accesso a Internet (le linee telefoniche verso l’Ucraina sono chiuse). Queste persone riferiscono in una decina di casi che chi si è rifiutato di lavorare senza paga sarebbe stato prelevato e torturato: sempre dallo stesso edificio, il silenzio del villaggio si riempie di gemiti e urla abbastanza alte perché tutti odano e tutti ricordino. Non si tratta del solo caso di racconti del genere. A Mariupol il nuovo «sindaco» Konstantin Ivashenko, un ucraino che guidava un’impresa locale, avrebbe rivolto un’offerta ai seimila dipendenti delle acciaierie rimasti in città. Non torneranno a lavorare a Azovstal perché quel simbolo della resistenza sarà raso al suolo — avrebbe detto Ivashenko — «per farci un parco». Gli operai rimasti potranno invece produrre o riparare attrezzatura militare russa nell’altra grande acciaieria, Ilych, oppure raccogliere macerie. La sola condizione è che nessuno si aspetti di essere pagato se non con razioni di cibo. Del resto non manca il cibo, in uno degli spicchi di terra più fertili al mondo, solo che anche su di esso si stanno sviluppando forme di sfruttamento troppo metodiche perché siano solo frutto dell’avidità dei singoli. A Borova, nella regione di Kharviv, opachi intermediari incalzano i contadini perché vendano le loro terre a prezzi stracciati. Nella regione di Zaporizhzhia, la denuncia del governatore Starukh non potrebbe essere più chiara: «I coltivatori ormai hanno un solo acquirente ed è lui a fare il prezzo: adesso una tonnellata di grano è venduta a 50 dollari» (il prezzo sul mercato internazionale è circa otto volte superiore). Nasce anche da qui la pressione fortissima a piegarsi all’autorità degli invasori. «Chi ha ricevuto dai russi l’autorizzazione a esportare si arricchisce — osserva Starukh — mentre tanti l’anno prossimo non avranno i soldi per le sementi e saranno alla mercé dall’aiuto di Mosca. È un ricatto ed è una colossale rapina, perché ci guadagneranno solo i collaborazionisti pro-russi». Che si tratti di un’operazione la cui regia è al centro dell’arcipelago putiniano lo dimostra del resto la proposta di legge 163025-8 presentata martedì alla Duma. Emenda le norme sulle dogane per «semplificare il passaggio di prodotti agricoli e alimentari attraverso il confine russo dalle aree adiacenti alle zone di operazioni militari speciali»: velocizza il furto dei raccolti ucraini.
La russificazione
L’altro volto dell’oppressione è far sentire gli oppressi un’unica cosa con i loro carcerieri e trasformare l’Ucraina occupata in una sorta di villaggio Potemkin, schiacciandone l’identità per sovrapporvi quella del presunto impero di Vladimir Putin. Oggi nei territori occupati dai russi è in corso il più grande tentativo di lavaggio dei cervelli mai immaginato dai tempi di George Orwell. «Appena conquistata una zona, installano le antenne per trasmettere le loro tv — denuncia Oleksiy Honcharenko, un deputato ucraino a cui scrivono migliaia di persone anche dai territori occupati —. Accendono la loro propaganda e sperano che prima o poi la gente comincerà a crederci. Se manca l’elettricità, come a Mariupol, mandano in strada grandi schermi a led montati su camion a mostrare i notiziari russi. Raccontano che gli ucraini sono nazisti, aiutati da nazisti tedeschi e italiani, che bombardano i quartieri civili delle proprie città e se la Russia non fosse intervenuta i gay e lesbiche europee avrebbero obbligato tutti a partecipare ai loro cortei». Per russificare, il primo passaggio è spezzare la speranza. Dice Honcharenko: «Cercano di convincere la gente che mai l’Ucraina saprà lanciare una controffensiva e che la gente deve rassegnarsi. Esattamente come avveniva nell’Unione Sovietica». Dunque, continua, è fondamentale la «cancellazione della memoria: a Mariupol hanno cambiato il nome in Zdanov come ai tempi sovietici. Bruciano libri, sostituiscono monumenti ucraini con simboli russi. Nelle scuole ci saranno solo libri russi che raccontano che russi, bielorussi e ucraini sono lo stesso grande popolo e, in sostanza, l’Ucraina non esiste». Sta succedendo davvero. Nella libreria della scuola di Borova, il villaggio vicino a Kharkiv, sono scomparsi i libri ucraini e sono apparsi quelli russi. «Se metti una persona in un campo di concentramento non è perché la vuoi convincere, ma perché ne vuoi spezzare la volontà e l’identità. I russi si comportano allo stesso modo», sostiene il governatore di Zaporizhzhia Starukh. Le misure amministrative, dai livelli più minuti fino ai maggiori, vanno nella stessa direzione. Il canale Telegram di Borova riferisce che agli abitanti vengono offerti 15 rubli (25 centesimi di euro) per ogni palo decorato con la bandiera russa. A chi chiede la cittadinanza dell’oppressore spetta un premio di diecimila rubli (170 euro) e tra Kherson e Zaporizhzhia circa ventimila persone, secondo fonti russe, avrebbero ottenuto il passaporto. Russe diventano la rete telefonica, la scadente marca del latte nei negozi, le pensioni, la moneta (con le grivne ucraine cambiate in rubli alla metà del valore). Russi sono il servizio dei bus vuoti che vanno in Crimea e le vacanze-studio che portano gli scolari di Kherson proprio in Crimea. Queste azioni sembrano preludere a una serie di referendum di «annessione» dei territori alla Russia stessa se la situazione militare dell’autunno lo permetterà. Di recente Kyrylo Stremousov, vicecapo dell’«amministrazione civile-militare» della regione di Kherson ha parlato di questa prospettiva e la stessa intelligence militare di Londra lo conferma. Ma niente di tutto questo sarebbe pensabile senza l’appoggio di ucraini che per convenienza, ambizione o adesione collaborano.
La zona grigia
È il caso di Volodymyr Saldo, già deputato nel parlamento ucraino, ma fulmineo nell’assumere una postura filo-Putin che gli è valsa la nomina a governatore di Kherson: ora si rivolge ai cittadini con la bandiera russa alle spalle. O di Konstantin Ivaschenko, che ha colto l’arrivo dei russi per diventare finalmente qualcuno a Mariupol. Sono loro i nuovi kapò. Ma i racconti da dietro la cortina fanno capire che esiste una zona grigia più ampia di chi cerca di convincersi e di adattarsi invece di lottare. Neanche l’Ucraina è esente da ciascuno dei lati della sfaccettatissima natura umana.
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