Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 11/07/2022, a pag.1-25 con il titolo 'Le due guerre di Putin' l'editoriale di Ezio Mauro.
Ezio Mauro
L’Ucraina, con i suoi morti e la sua resistenza sotto i bombardamenti, gli assedi e le città distrutte, per Mosca è soltanto il teatro dello scontro militare su una sovranità trasformata in possesso. Un altro scontro è al centro dell’interpretazione putiniana della guerra e della rappresentazione che ne fa ogni giorno il Cremlino. È la perenne battaglia per l’egemonia tra le due Europe, che oggi vede la Russia in campo contro i suoi tre fantasmi perenni: la sirena politica della Ue, la minaccia armata della Nato e quindi dell’America, l’insidia culturale dell’Occidente. Nel vecchio mondo, prima dell’invasione russa di febbraio, la democrazia, l’ideologia e l’ipocrisia avevano costruito un sistema di convivenza basato sulla deterrenza, sull’eredità di Jalta e sulla convenienza, assegnandosi reciprocamente un ruolo e rispettandolo anche nei momenti di maggior tensione tra gli Stati.
L’Est e l’Ovest sapevano di essere concorrenti, avversari ma anche partner, con voce in capitolo nelle questioni più rilevanti. Questo schema ha retto per quasi mezzo secolo nella lunga stagione della Guerra Fredda, quando la leadership internazionale era divisa in due, ed è rimasto in piedi per inerzia anche nei trent’anni senza nome che abbiamo attraversato dopo il terremoto seguito al crollo del muro di Berlino, con la mappa d’Europa completamente cambiata. Oggi quei tre elementi si separano definitivamente, prendendo ognuno la sua strada, come se non potessero più convivere dopo l’ingresso dei tank russi in Ucraina e la criptoguerra mondiale che ne deriva. Il problema è che quel confronto-scontro perennemente alimentato e continuamente controllato garantiva l’ordine mondiale: fragile, sospettoso, armato e tuttavia custodito col concorso di tutti. La memoria e il lascito spaventoso della guerra agivano come un impulso a costruire meccanismi di regolazione preventiva dei conflitti, organismi internazionali di salvaguardia della legalità nei rapporti tra gli Stati, strutture sovranazionali di arbitrato e di garanzia per l’esercizio del diritto internazionale. Il titanismo istituzionale dei padri ha inseguito fino a ieri l’utopia politica di un mondo più sicuro per i figli. La terribile geografia europea, capace di incubare due guerre mondiali dentro i suoi confini, veniva messa sotto tutela sia pure conflittuale, nell’interesse comune.
Tutto era sospeso più che definitivo, affidato al pragmatismo della realpolitik piuttosto che alla condivisione di una teoria generale della convivenza. Ma se il dispotismo dell’Est europeo cercava in questo confronto negoziale con l’Ovest una sicurezza e un riconoscimento, la democrazia occidentale sperimentava l’universalità dei suoi valori, del suo metodo, dei suoi obiettivi: per l’Unione Sovietica la pace era una garanzia di stabilità interna e internazionale, una convenienza politica, mentre per l’Occidente era l’ambiente necessario peril dispiegarsi dei diritti e delle garanzie, una condizione indispensabile per la promessa di libertà e di giustizia, addirittura la prova dell’universale democratico, perché la democrazia ha bisogno della pace per esprimersi compiutamente. Il codice riconosciuto e accettato dell’ordine internazionale ha consentito di controllare le crisi, di gestire la convivenza nella diversità e nell’opposizione di due sistemi politici e culturali inevitabilmente antagonisti. È dunque stato uno strumento di governo del mondo, che ha affermato un principio democratico, la superiorità del diritto sulla forza. Si potrebbe dire che attraverso questo metodo e questa ricerca la democrazia ha finito per coincidere col punto di razionalità della politica: e anche chi non accettava i principi, le istituzioni e la pratica democratica, non poteva negare l’elemento razionale di questa proposta. Oggi questo computo razionale è saltato, è come se Mosca avesse inventato un altro sistema di calcolo unilaterale dei costi e dei benefici di ogni azione e, tirate le sue somme della partnership con l’Occidente, avesse deciso una secessione dalla logica comune, entrando in un’altra dimensione, soltanto sua: ritraendosi dall’osservanza universale delle norme giuridiche figlie della civiltà romana, ritornando a far prevalere lo scopo sulla regola, recuperando alla fine della storia la triade gloriosa degli inizi, cioè l’alleanza — santa come la Russia — tra l’autocrazia che impera, l’ortodossia che benedice e il popolo che si unisce in comunione obbediente al sovrano. In questo senso Vladimir Putin, protagonista di questo cambio di dimensione, è l’ultimo erede della potestà imperiale esercitata nel millennio dai sovrani guerrieri della Rus’, dai Gran Principi di Moscovia, dagli Zar, dai Segretari Generali del Pcus. Ma è anche il primo leader che decide di abitare nel mondo nuovo, colonizzandolo politicamente, rimettendo «l’idea russa» al centro dell’identità nazionale, separandola dall’Occidente nuovamente «marcio» come nella maledizione degli slavofili, recuperandole un posto privilegiato nella competizione per la supremazia, dando un nome e un ruolo agli avversari, costituendoli in nemici. Non solo. Poiché per Putin una storia universale non esiste ma è solo un inganno dell’Occidente per contrabbandare i suoi valori, bisogna rileggere le vicende del passato come espressioni di civiltà separate e distinte: per concludere che la Russia può solo adempiere alla sua missione universale e compiere il suo destino, cosciente di «non essere una nazione ma un mondo intero», mentre il suo popolo, come certifica Dostoevskij «è l’unico portatore di Dio». Si capisce a questo punto che di fronte a questa interpretazione metafisica della politica e a questo esercizio messianico del potere, le armi tradizionali della diplomazia risultino spuntate: per un negoziato bisognerà inventarne di nuove. Solo la guerra è uguale a se stessa. E la vera paura di Putin, man mano che la resistenza continua, è di rimanere intrappolato nella terra sospesa di nessuno, tra il vecchio mondo che ha abbandonato e il nuovo che non si lascia conquistare.
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