Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 08/07/2022 a pag.10 con il titolo "Nelle retrovie della guerra", il commento di Gianni Riotta.
Gianni Riotta
L’allarme antimissili russi rompe il silenzio del coprifuoco notturno a L’viv, l’antica città erede dell’impero austro-ungarico, alle 2 e 45 e chi non viene svegliato dalle sirene si scuote nel letto per l’app, che il governo impone di scaricare nei cellulari, e che avverte, petulante, dell’attacco possibile. Quando suona il cessato pericolo, alle 3 e 49, manca un’ora all’alba, in un luglio che alterna caldo torrido a pioggia torrenziale, allagando i rifugi sotterranei: ancora un paio d’ore, poi la mamma di Yuriy Pliynyk berrà il caffè, salendo sul tram giallo. Aspetta con pazienza l’apertura del cimitero di Lychakivsky, dove riposano l’asso della ginnastica sovietica Chukarin, scampato al lager nazista e capace, dopo la guerra, di vincere sette ori olimpici, il poeta Franko, i caduti delle guerre del XX secolo. Ma la signora Pliynik, giovanile, capelli biondi, vestita di nero, non fa turismo o ricerca glorie perdute. Si allontana lungo il viale al confine con un campetto di calcio, il portiere strepita invocando la palla, passa sotto il pennone con la bandiera giallo-blu, si inoltra tra gli alberi, verso le fosse dei soldati morti in Donbass, nella guerra ibrida del 2014. Si ferma all’angolo estremo, una lastra di marmo è coperta di fiori freschi, lei ne aggiunge altri, appena raccolti. La foto di Yuriy è uguale a quelle dei compagni uccisi al fronte nel 2022, nell’ultimo conflitto europeo, sguardo spavaldo, cappello marziale, volto che appare già lontanissimo, perduto a tutti ma non alla mamma. «Vengo ogni giorno a trovarlo da quando è morto il 22 marzo scorso», racconta ad occhi bassi la signora, sistemando la tomba come fosse la cameretta da teenager, «Ho un altro figlio, ma non mi consola». Un passante accenna mesto una preghiera, la signora Pliynyk lo fissa, rassegnata, «Pregare? Certo. A noi non resta che pregare». «Ho celebrato 150 funerali dall’inizio della guerra. Solo giovani. I cattolici da voi, in Italia, temono che le armi all’Ucraina allunghino la guerra. Io rivedo il bambino di nove anni che abbraccia affranto la bara del padre. Anche lui deve far parte del dibattito no?»: padre Taras Mykalchuk, nome cosacco, 39 anni, è il cappellano militare di L’viv, allaChiesa di San Pietro e Paolo. Mi mostra il soffitto, affrescato nel 1740, «I sovietici fecero qua un deposito di libri, escrementi di piccione sugli altari. Raccogliamo ex voto, guardi, una borraccia sforacchiata dalle pallottole, una cluster bomb russa, una croce di betulla scampata ai bombardamenti ». Padre Taras riparte per il Donbass, «Mi han già tirato addosso, ma devo confortare i soldati. Siamo di rito greco cattolico, parliamo però agli ortodossi e agli atei, anche se sotto il fuoco ci si converte in fretta», sorride. «Incontro hipster e cristiani, operai e manager, nazionalisti e progressisti, sa cosa li unisce? Sono una generazione europea, mai vissuta sotto l’Urss, quando la basilica era un fondaco. Putincredeva fossimo vecchia Urss, da normalizzare in pochi giorni. Ha trovato una Ucraina diversa e non ha preso Kiev». A L’viv, retrovia della guerra, non c’è tempo per diplomazie.
Sui viali di Prospettiva Schevcenko, si improvvisa un concerto rock all’aperto, Mojito e ragazzi fuori di sé per la circolare dell’esercito che obbligava i cittadini in età militare a non cambiar residenza senza permesso, subito cancellata dal presidente Zelensky, ma che online, da martedì scorso, ha spaventato. Con l’ultima sigaretta elettronica fra le labbra, dall’11 luglio divieto di fumare nelle terrazze di caffè e bar, le icone di San Giorgio care a padre Taras sembrano remote, eppure l’umore resta identico: «Se mi arruolano? Vado e combatto, che altro?», ride amaro un diciottenne, t-shirt con la scritta “Romeo”. È, come tanti, arrivato in città da profugo, la sua azienda fa vestiario e lui ha seguito il capo, «Odio gli eroi pure al cinema, ma questa è casa mia». Al campus dell’Università, prato ingiallito fra eleganti quadrati di cemento e vetro, contano gli studenti caduti, «Già otto» ricorda lo studioso Yaroslav Hrytsak, autore della monumentale opera “Ripensare il passato: Storia Globale dell’Ucraina”, «che ora il mio amico Andrea Graziosi curerà in traduzione italiana ». “Ripensare il passato”, per Hrytsak, barba brizzolata, voce appassionata, orecchino al lobo, significa non cadere nei cliché tv, «Nato aggressiva, Urss tradita, tradizione russa eterna a Kiev: nonsense. Putin finge di sentirsi unito a noi da lingua, cultura, religione, ma quel che conta, in pace e in guerra, è la politica. Noi siamo una democrazia, rispettiamo gli errori, cambiamo idea. Il Cremlino pensa di avere la verità, dentro una trincea di bugie. È in corso uno scontro per la democrazia in Europa. Se, come gli esperti militari prevedevano, Kiev fosse caduta e Zelensky giustiziato o esiliato, il mondo si sarebbe dimenticato di noi, dopo Cecenia, Georgia, Crimea, Siria. La resistenza mette invece Stati Uniti e Unione Europea davanti a un esame di coscienza: in che cosa crediamo noi democratici, quali valori professa chi si dice liberale?». Sotto le cupole di S. Pietro e Paolo, Padre Taras traduce la dottrina politica di Hrytsak in Apocalisse cristiana, «Noi siamo male armati e combattiamo un diavolo armato,che non vuole lasciare felici i nostri bambini». Riporto il dilemma al vescovo Ihor Vozniak, il metropolita di L’viv, medaglione con la Madonna al collo, profilo aguzzo, fama da prelato deciso, «Non dimentichi — ironizza — che a 18 anni ero sergente nell’Armata Rossa, non sacerdote. Se un cristiano mi chiede “È possibile per noi credenti nel Vangelo armare l’Ucraina?”, rispondo: non solo si possono mandare armi, si devono mandare! Anche Gesù, San Giovanni, 15-12,17, ci insegna: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. I nostri muoiono per salvare gli amici, i poveri russi per i soldi di Putin e Lavrov». Papa Francesco però, e tanti intellettuali cattolici, hanno giudizi diversi obietto e il vescovo Vozniak, nell’ufficio all’ombra della Cattedrale di San Giorgio, distrutta per la prima volta nel 1340 da Re Casimiro di Polonia e teatro delle gesta clandestine dell’arcivescovo Sterniuk, poi deportato da Stalin, mi interrompe: «La mia posizione è che anche il Santo Padre può sbagliare. Si è formato in Argentina, l’Urss è stata unsimbolo in America Latina, contro gli Stati Uniti. Si chiede un negoziato? Bene, basta che i russi cessino il fuoco e si siedano al tavolo. Ho dialogato con un suo collega, dell’Osservatore Romano, gli ho detto vedi, il Papa può ben andare a Kiev, anche disarmato, ma Putin non può andare a Kiev, neppure armato. E sai perché? Per un miracolo, il miracolo dei Javelin», i lanciamissili a spalla che hanno fermato l’offensiva russa.
Sul volto del vescovo Ihor, 70 anni, affiora il lampo sornione del ragazzo sergente dell’Urss: Il suo collega ha deciso di non pubblicare l’intervista…». Guerra o Pace. Questo clima morale, opposto come tormente e solleone d’estate, anima L’viv. Ivanka Krypyakevich Dymid, celebre pittrice di icone, al funerale del figlio Artemy, 27 anni, caduto in azione, ha intonato la ninna nanna che gli cantava da bambino e la professoressa Olena Dzhedzhora, nel raccontarmi la storia, non trattiene le lacrime, «Sono amica di Ivanka, conoscevo Artemy. I compagni di reparto hanno avuto il permesso di accompagnarlo in chiesa, son venuti con ilsuo zaino, maglione, calze, le semplici cose di trincea. Ad un certo punto hanno estratto un libro, ho allungato lo sguardo, sa cosa era? Seneca, il filosofo della saggezza. Insegno un corso sulle utopie politiche, e a volte Erasmo, Tommaso Moro, Machiavelli, mi sembrano distanti, roba da museo, invece tutto sta ritornando vero, Seneca al fronte!». Olena Dzhedzhora raccoglie le voci di L’viv, rifugiati, civili, militari, «Non voglio ci si dimentichi di quel che soffriamo, allora intervistiamo bambini e anziani, mettiamo online le testimonianze, cerchiamo traduttori in lingue diverse, per generare un’antologia della memoria europea». Ad accogliere i profughi incontrati da Olena, ci sono volontari come Olga Lekh, coordinatrice di un progetto dell’Ordine di Malta italiano. Niente camerate nella casa rifugio, ciascuno battezza con un cartellino scritto col pennarello la propria stanza, “Isola Felice”, “Nonna, Mamma, Nipote”, “Famiglia Unita”. «Valeria ha 5 mesi, i suoi sfuggiti da Kharkiv, ed è sempre vissuta con noi — spiega Olga — siamo solo donne, mariti e fratelli in guerra». Sugli scaffali lenzuola ripiegate, in terra giocattoli dimenticati, il computer per i compiti a distanza, materassi per gli ultimi arrivati, l’orgoglio della saga “Bluefin”: «Abita con noi una famiglia che a Donetsk aveva un ristorante sushi, il “Bluefin”. I russi li han cacciati nel 2014, sono andati a Mariupol, giusto dietro la famosa fabbrica Azovstal. Di nuovo bombe e terrore, rieccoli a L’viv a riaprire il terzo “Bluefin”, sushi e sashimi,lo provi!». Cadono ora le ombre su L’viv, sbarrano il cancello al cimitero Lychakivsky, la signora Pliynyk ritorna a casa. Al fronte i russi si riorganizzano per la terza offensiva, i tiratardi del caffè Veronika rimpiangono il premier inglese Johnson, «Era comunque un amico», una signora imbocca la figlia con lo strudel e chiede «Lei pensa che per l’inizio delle scuole, primo settembre, la guerra sarà finita?», padre Taras è accampato in prima linea, due coscritti dibattono, davanti all’ultima birra, se sia meno pericoloso arrivare a Kiev in auto o col treno notturno, in cuccetta. Il più ragazzino ingolla dal boccale e ride, con i baffi di schiuma: «Treno: del resto, la macchina chi ce l’ha?».
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