Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 18/06/2022, a pag.45, con il titolo "Quando il giornalismo è coraggio" l'intervista di Massimiliano Peggio.
Massimiliano Peggio
Angelo Pezzana
«Diritti. Ecco la parola chiave di tutto. E il fatto che un grande quotidiano come La Stampa prenda parte al Pride vuol dire riconoscere apertamente l'importanza dei diritti». Angelo Pezzana, 82 anni, ha speso la sua vita a difendere i diritti degli omosessuali e lo fa ancora oggi, con la stessa forza mostrata mezzo secolo fa marciando e ballando nei primi gay pride, anche se oggi è costretto a muoversi con un bastone. «La testa è ancora sana» si affretta a dire.
Stupito della presenza dei giornalisti de La Stampa al Pride? «Tutt'altro. Nel 1972 la Stampa fu il primo giornale nazionale a pubblicare la parola omosessuale. Lo fece un giornalista cortese, dall'aria timida, ma con un enorme coraggio: Luciano Curino. Eravamo a Sanremo, a contestare un congresso di psichiatri che voleva definire l'omosessualità una malattia. Eravamo una ventina, quasi tutti torinesi. Curino, inviato a seguire la manifestazione, mi fece delle domande e mi disse che non avrebbe potuto usare la parola omosessuale sul suo giornale, perché nessuno la usava. Gli risposi: "Colga l'occasione e la scriva, così sarà il primo giornalista italiano a farlo". E così andò».
Com'è cambiato nel tempo il Pride? «Torino ha aperto la strada negli anni 70. I primi cortei che da Porta Susa raggiungevano piazza Castello venivano aperti dalla banda musicale dei vigili urbani di Torino, perché erano percepiti come una festa istituzionale. Una festa per difendere la normalità dei diritti. All'inizio poteva sembrare solo un carnevale, con striscioni e musica. Poi si è diffuso anche nelle piccole città, portando ovunque il valore del suo significato».
La diga dei pregiudizi è ancora solida? «Quando c'è di mezzo il sesso è difficile non prendere posizione a causa dei pregiudizi. I pregiudizi sul sesso sono tra i più diffusi. Il problema è raggiungere un livello ottimale di diritti e uguaglianza, che non vuol dire tolleranza. La parola tolleranza è orribile, negativa, rappresenta una forma terribile di normalità. Attenzione a non trasformare questa ricerca di uguaglianza in un'ideologia oppressiva».
A quali derive ideologiche si riferisce? «Mi riferisco a quelle azioni lanciate in America e diffuse in altre parti del mondo contro docenti universitari, scrittori, registi, attori che non si comportano secondo le regole di questa nuova prassi imperante che vuole colpire chi è omofobo. Colpire chi è omofobo non può diventare una regola, bisogna battere invece sui diritti. Un esempio? Il movimento Me Too: se dopo trent'anni si denuncia una molestia subita, ciò appare quasi come una vendetta e non una richiesta di giustizia. Bisogna fare attenzione a non usare la lotta all'omofobia come strumento di repressione. L'uguaglianza è un diritto attuale, inutile rinvangare il passato».
Dopo tanti anni di attivismo che cosa la ferisce oggi? «Vedere tanti omosessuali, famosi in vari campi, che non prendono mai una posizione, non dicono mai una frase che possa essere di esempio per il miglioramento della società. O assistere a tutte quelle crudeltà normative che affliggono le coppie omosessuali con figli. Il Pride è una giornata di festa che fa parte delle iniziative per rendere efficaci i principi: non basta scrivere in una legge che siamo tutti uguali. Cinquant'anni fa gli omosessuali venivano definiti anormali. Oggi rivendichiamo di essere normali».
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