Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi 24/06/2022, a pag. 12, con il titolo "La Piccola Russia. Viaggio tra i ribelli dell’impero Putin", l'analisi di Gianni Vernetti.
Gianni Vernetti
Vladimir Putin
Le immagini dei giovanissimi soldati catturati dalle forze ucraine, con i volti delle regioni più remote della Russia, raccontano il mosaico etnico della Federazione russa: buriati, tuvini, yakuti, bashkiri, tatari, udmurti, provenienti dalle tante Repubbliche autonome della Federazione russa. Alcune di queste unità militari sono state riconosciute responsabili dei massacri di civili come accaduto a Bucha per mano della 64ma Brigata motorizzata di stanza a Nkyaze-Volkonskoye nell’estremo oriente siberiano, e composta per la maggior parte da soldati buriati, insieme agli oramai molti casi documentati delle atrocità commesse dai miliziani ceceni del satrapo Ramzan Kadyrov, la mano più violenta del regime di Putin. Seguendo il manuale staliniano, Vladimir Putin ha disposto delle minoranze etniche della grande Russia a suo piacimento per limitare l’utilizzo di forze russe nel conflitto e per disporre di milizie con meno remore nei confronti dei “fratelli ucraini”. Ma questa volta il calcolo rischia di essere errato e in molte cancellerie in Occidente si inizia ad analizzare la possibilità di un crollo della Federazione russa in maniere similare a quanto accadde nel 1991 con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Fra gli 87 soggetti costituenti della Federazione russa, accanto agli Oblast (regioni) e i Krai (territori), con gradi di autonomia simili alle nostre regioni, vi sono 21 Repubbliche autonome nate fin dai tempi dell’Unione Sovietica per tutelare le molte etnie del Paese. Sono repubbliche con una loro Costituzione, parlamento e governo. Nel 1991 una sola dichiarò la piena indipendenza, la Cecenia, e venne punita con una guerra senza quartiere che provocò oltre 150mila morti, la totale distruzione della capitale Grozny, e infine la normalizzazione con l’insediamento del regime fantoccio, violento e autoritario di Kadyrov. L’onda tellurica provocata dalla guerra in Ucraina rischia ora di produrre un impatto imprevisto lungo tutto il grande territorio della Federazione. Il nostro viaggio inizia nell’Idel-Ural, fra le cinque repubbliche del Medio Volga: il Tatarstan, la Chuvassia, la Mordovia, il Mari-El e la Baschiria. Siamo a soli 700 chilometri da Mosca verso la catena montuosa degli Urali e i rappresentanti dei movimenti che vogliono la separazione da Mosca sono in esilio.
Alla periferia di Kiev ha la sede il movimento “Svabodni Idel-Ural” (Libertà per l’Idel-Ural che ha una missione chiara: «Il nostro obiettivo? Il collasso della Russia e la creazione dinuovi Stati sulle sue rovine». Ogni settimana il movimento pubblica le “Cronache del collasso della Federazione russa”: funerali di giovanissimi soldati di leva morti nelle pianure ucraine, i mille casi di corruzione negli apparati locali, la giustizia ingiusta asservita al potente locale, i disservizi, le devastazioni della taiga e dei delicati ecosistemi lacustri. Alcuni dei loro leader sono incarcerati come l’attivista baschiro Airat Dilmukhametov, condannato a nove anni di carcere per «incitazione al separatismo», altri in esilio come il tataro Nafisi Kashapov che si è battuto per anni per la tutela della lingua tatara. All’inizio dello scorso anno scolastico a Kazan, la capitale del Tatarstan, il 55% degli studenti ha optato per il tataro come prima lingua contro le autorità che vorrebbe imporre il russo. La guerra in Ucraina ha riaperto vecchie ferite. Il presidente del “Centro Pubblico di tutti i tatari”, Farit Zakiyv, ha lasciato il Paese poche settimane fa per andare in un esilio («temporaneo» come lui stesso dice) in Turchia: «Sono dovuto fuggire dal mio Paese, il Tatarstan, perché credo che questa guerra sia inaccettabile: gliucraini sono nostri fratelli». E frasi come questa le si possono ascoltare quasi ogni giorno suRadio Azadliq , il canale in lingua tatara e baschira di Radio Free Europe/Radio Liberty . Anche nella vicina Repubblica del Bashkortostan (la Baschiria), la voglia di abbandonare Mosca sta crescendo. Siamo a ridosso della catena montuosa degli Urali e qui si trova il confine geografico fra Europa e Asia. La sua capitale, Ufa, dista 3.900 chilometri da Bruxelles. L’attivista baschiro Ruslan Gabbasov ha da poco ottenuto l’asilo politico in Lituania dopo essere stato costretto alla fuga in seguito alla messa fuori legge della Ong da lui fondata (il gruppo “Bashqort”) che si batte per il riconoscimento dei diritti linguistici, politici e culturali della minoranza baschira. «La Federazione russa - dice Gabbasov -non è più una federazione ma un impero di tipo coloniale». Ma i giovani per le strade di Ufa parlano soltanto della fuga di Ivan Dryomin, il più famoso rapper della Baschiria, noto come “The Face”, costretto a lasciare il Paese per essersi espresso con forza contro la guerra in Ucraina sul suo account Instagram con due milioni di follower. Poco più a nord, troviamo la repubblica autonoma dell’Udmurtia, la cui capitale Izhevsk, anche lei sulle rive del Volga, è nota in tutta la Russia per aver dato i natali a Mikhail Kalashnikov, che ha qui fondato nel 1948 la prima fabbrica di AK-47 la cui produzione continua ininterrottamente fino ad oggi. Gli udmurti parlano una lingua del ceppo ugro-finnico e insieme alle vicine repubbliche di Mari-El e di Mordovia condividono unaparte importante di storia, cultura e identità linguistica con Finlandia, Estonia ed Ungheria. Anche qui la lingua è un elemento identitario importante e l’intera repubblica è ancora scossa dalla tragica auto-immolazione di Albert Razin che nel settembre del 2019 si diede fuoco di fronte al parlamento locale per protestare contro la legge della Duma di Mosca che cancellava l’obbligatorietà dello studio delle lingue “indigene” nelle scuole delle repubbliche autonome. La lingua udmurta è affine all’estone e al finlandese e molti giovani della repubblica hanno lo sguardo sempre più rivolto a Occidente e alle leadership combattive e innovative del primo ministro finlandese Sanna Marin e della premier dell’Estonia Kaja Kallas. Nei boschi di conifere della Repubblica del Mari-El, l’opposizione al regime di Mosca passa anche attraverso la rinascita spirituale e il ritorno agli antichi culti animisti pre-cristiani. La Repubblica di Karelia condivide un lungo confine con la Finlandia e include anche quei territori annessi da Mosca alla fine dellaWinter War del 1939, dopo che l’eroica resistenza dei partigiani finlandesi fermò l’Armata Rossa nei boschi di betulle evitando l’invasione totale della Finlandia, ma perdendo a favore di Mosca la città di Viipuri, le sponde del lago Ladoga, oltre che metà della Karelia finlandese. Spostandoci verso il circolo polare artico e a ridosso della catena degli Urali, troviamo la Repubblica dei Komi, tristemente nota per avere ospitato il più grande gulag della storia sovietica: il gulag di Vorkuta, attivo ininterrottamente fra il 1932 e il 1962 con oltre 73mila detenuti. Anche qui le proteste per la tutela della lingua sono culminate nel processo nella città di Syktyvkar ad Aleksei Ivanov, che è intervenuto al tribunale parlando esclusivamente nella lingua Komi, costringendo i giudici ad interrompere l’udienza per trovare un traduttore. «Viviamo nella Repubblica dei Komi e le due lingue ufficiali sono il russo e l’antica lingua Komi, di ceppo ugro-finnico», ha insistito Ivanov provocando le ire della corte. La lotta contro la guerra in Ucraina ha raggiunto anche le tre repubbliche a maggioranza buddista della Buriazia, di Tuva e della Calmucchia.
Come ha fatto notare recentemente il giornalista Christo Grozev di Bellingcat, le perdite nella guerra in Ucraina di soldati non-slavi sono incomparabilmente più alte delle truppe provenienti dalle regioni a maggioranza russa. Il giornale russo online Mediazona ha esaminato i primi e pochi dati ufficiali sulla guerra forniti dalla autorità: fra i primi 1.700 caduti, le regioni più colpite sono state la Buriazia, Tuva e l’Ossezia del Nord, con nessuna vittima fra i residenti di Mosca e San Pietroburgo nonostante il fatto che le due città rappresentino da sole oltre il 12% dell’intera popolazione. «Nel mese di aprile di quest’anno insieme a un gruppo esponenti della diaspora buriata abbiamo fondato la “Free Buriatia Foundation” - dichiara la presidente Alexandra Garmazhapova - alla quale hanno aderito molti gruppi spontanei all’interno della repubblica ». La fondazione offre supporto legale al personale militare che non vuole essere inviato in Ucraina. Nelle pianure fra il mare di Azov e il Mar Caspio c’è poi l’unica repubblica buddista mai esistita sul suolo europeo: la Calmucchia, abitata dai discendenti dell’Orda d’Oro di Gengis Khan giunti nel 1300 fino alle porte del vecchio continente. Il designer calmucco Aldar Erendzhenov e sua moglie hanno creato qualche anno fa il brand “4 Oirad” per valorizzare la cultura etnica locale e per contrastare la narrativa di regime i due designer hanno inventato una linea di abbigliamento con il logo “Nerussky” (Non-russo) per marcare non solo la diversa identità calmucca, ma anche la loro avversità alla scelta bellica di Mosca. Dopo poche settimane sono stati costretti ad emigrare in Mongolia. Mille chilometri più a oriente e al confine con la Mongolia si trova un’altra repubblica buddista: Tuva. Qui è nato il ministro della Difesa Sergei Shoigu ed è fra queste montagne che Vladimir Putin si è fatto fotografare nelle sue pose machiste durante diverse battute di caccia con il suo fidato ministro. Ma quello èun tempo oramai passato e le bare che tornano in patria dall’Ucraina aumentano l’insofferenza popolare in un Paese che è stato indipendente fino al 1944, per essere poi annesso con la forza da Stalin nell’Unione Sovietica. Nel mese di aprile di quest’anno le forze di sicurezza della repubblica di Khakassia hanno arrestato Mikhail Afanasyev, direttore delportale Novy Fokus di Abakan, e Sergei Mikhaylov, fondatore di Listok, un quotidiano della repubblica di Altaj. L’accusa per i due giornalisti è quella di aver intenzionalmente diffuso «informazioni false sulle forze armate russe» e rischiano fino a 10 anni di carcere. Il 4 aprileNovy Fokus aveva dato la notizia del rifiuto di 11 agenti della polizia antisommossa di Khakassia di andare a combattere in Ucraina e il quotidiano Listok aveva pubblicato notizie sulle manifestazioni contro la guerra. Leonid Volkov, il capo della rete di Navalny in esilio a Vilnius, racconta inoltre che «lo scorso settembre, in occasione delle elezioni del parlamento della Repubblica di Altaj e grazie all’iniziativa di “smart voting” il movimento è riuscito ad eleggere nove deputati, facendo crollare i consensi per il partito di Russia Unita». Tutte queste storie raccontano una Russia diversa dalla propaganda del Cremlino e ci ricordano come l’elevata complessità, la diversità e la grande dimensione della Federazione Russa possano essere governate soltanto in due modi: con il pugno di ferro, come fu prima con gli Zar e poi con Stalin, o, come amano ripetere spesso i dissidenti come Alexey Navalny, Garry Kasparov e Mikhail Khodorkovsky, con una struttura democratica e federale che sappia valorizzare il mosaico linguistico, culturale e religioso e rendere quella diversità un elemento di ricchezza e di forza. Vladimir Putin insegue invece sogni imperiali e autoritari che potrebbero infrangersi nelle pianure dell’Ucraina, provocando effetti indesiderati e centrifughi, rendendo sempre più chiaro il fatto che per evitare il collasso e la disgregazione della Russia l’unica possibilità sia rappresentata da un cambio di regime in grado di diffondere democrazia e libertà fra il Baltico e il Pacifico.
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