Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 22/06/2022, a pag. 11, l'articolo di Jonathan Littell dal titolo "Perché lo zar deve perdere la guerra".
Jonathan Littell
Vladimir Putin
Da qualche tempo si sente ripetere da più parti un ritornello pernicioso: gli ucraini stanno esagerando, la Nato rischia grosso, pensiamo all’inflazione piuttosto, bisogna tener conto di Putin. La formulazione più esplicita viene da Henry Kissinger, il quale il mese scorso a Davos ha affermato che l’Ucraina deve accettare di cedere parte del suo territorio, se non si vuole rischiare «una nuova guerra (della Nato) contro la Russia». In Germania, dove il governo Scholz trascina i piedi nella consegna delle armi promesse all’Ucraina, parte della classe politica pare convinta che la soluzione alla dipendenza energetica del Paese nei confronti della Russia non sia quella di sottrarvisi, bensì di chiudere gli occhi e tornare pian pianino a soddisfare le proprie rovinose comodità. Emmanuel Macron si è messo alla guida di questa fazione: «Non bisogna umiliare la Russia», ha ribadito prima di prendere il treno per Kiev. Che tragico errore! E quale segno di debolezza, e mancanza di visione strategica, che Vladimir Putin non esiterà a sfruttare con tutti i mezzi. Secondo quanto dichiarava pochi giorni fa un miliardario russo, vicino al Cremlino, alla giornalista britannica Catherine Belton, Putin «è convinto che presto l’Occidente si stancherà e che, nel lungo periodo, la vittoria sarà sua».
Per accelerare la nostra capitolazione, Putin non esita a usare tutti i mezzi sottomano: massima pressione sulle forniture di gas e petrolio, attraverso tagli abilmente orchestrati, destabilizzazione dei Balcani, e ricatto sulla penuria di grano che presto sfocerà in una catastrofe umanitaria in Africa, con il rischio di una nuova ondata migratoria. Per non parlare dello spauracchio nucleare che è sempre pronto ad agitare, quasi fosse realmente disposto a trascinare il mondo intero, Russia compresa, verso l’annientamento, quando sono in gioco le sue ambizioni e la sua sopravvivenza. Una volta svanita la sorpresa provocata dalla reazione rapida e coordinata dell’Occidente davanti all’invasione dell’Ucraina, oggi Putin punta sui tempi lunghi, sulle divisioni tra i Paesi europei, e soprattutto sulla nostra debolezza e totale incomprensione, quanto meno in Europa occidentale, quando si tratta di penetrare l’immaginario imperiale russo. Per Putin, come per il suo ministro Lavrov, la menzogna è al cuore della sua formazione e rappresenta uno strumento naturale di lavoro. Il dialogo non serve che a prender tempo per far avanzare le sue pedine, prima di tornare alla forza bruta al momento opportuno. Un negoziato o un accordo — come quello di Minsk del 2015, che doveva metter fine al conflitto nel Donbass — altro non è che uno stratagemma per congelare una conquista, in attesa di un nuovo spiraglio per passare a nuove conquiste. Immaginare, come Kissinger, di poter tornare allo status quo anteriore al conflitto è un’aberrazione. Pensare che si possa convincere Putin a sedersi al tavolo dei negoziati in buona fede, e che sia disposto a rispettare (una volta tanto!) i termini degli accordi, è un’ipotesi ridicola. Se non ci fossimo mostrati così impotenti, intimoriti, ciechi, se avessimo riarmato l’Ucraina dal 2015, o inviato truppe Nato sul suo territorio, anche solo a titolo di consiglieri militari, mai Putin — che capisce una sola legge, quella del più forte — si sarebbe arrischiato in questa guerra. Accogliamo con soddisfazione il ripensamento di Macron e Scholz, che hanno capito di non poter più ostacolare la candidatura ucraina all’Ue. Resta il fatto che le loro illusioni e vane speranze nei confronti di Putin sono dure a morire. Da decenni una parte dell’Europa, a cominciare dalla Germania, ha affidato la sua sicurezza energetica a Mosca, ignorando gli avvertimenti degli scienziati sul clima, e respingendo ogni suggerimento di lasciarsi alle spalle i combustibili fossili. Quanto tempo sprecato, a vantaggio di Mosca. Dall’inizio della guerra, la Russia ha incassato 93 miliardi di euro per le esportazioni di gas e petrolio, erogate soprattutto all’Ue. La cifra equivale a due volte e mezzo i 37 miliardi di euro che gli Stati Uniti hanno promesso all’Ucraina. Ora ci strappiamo i capelli perché i prezzi alla pompa superano i 2 euro al litro. È una vergogna, uno scandalo. Anche in Ucraina la benzina costa cara e le code alle stazioni di rifornimento sono interminabili. Ma nessuno si lamenta. Quello che chiedono gli ucraini non è combustibile a basso prezzo, ma armi e munizioni per respingere gli invasori, liberare le loro città. E hanno ragione.
Con l’invasione dell’Ucraina, Putin ha rovesciato lo scacchiere dell’ordine globale stabilito nel 1945, nel secondo dopoguerra: è illusorio sperare di riattaccare i cocci. Putin è un uomo che nel XXI secolo ha scatenato una guerra del XX secolo per raggiungere obiettivi del secolo XIX. Per lui, che si paragona a Pietro il Grande, l’annessione dell’Ucraina è questione esistenziale che non ha nulla a che vedere con le sue accuse deliranti contro la Nato. Per lui, l’Ucraina non deve più esistere, punto. E non ci sarà nessuna concessione, nessuna apertura diplomatica, nessun compromesso «ragionevole», da parte nostra, a impedirgli di raggiungere i suoi obiettivi. Chiedere agli ucraini di deporre le armi e negoziare un Minsk 3, 4 o 5, significa preparare il terreno a una nuova invasione dell’Ucraina tra qualche anno, dando a Putin il tempo per riorganizzare il suo esercito. E se muore nel frattempo, ma il regime gli sopravvive, il successore seguirà le sue orme. Il 9 maggio a Strasburgo, Macron, ipotizzando eventuali negoziati con la Russia, ha ricordato il trattato di Versailles che nel 1918, con l’umiliazione della Germania, «aveva funestato la via della pace». Fu vero nei confronti della Repubblica di Weimar, che rappresentò un coraggioso tentativo democratico. Però Macron, a quanto pare, non ha capito il momento storico che stiamo vivendo. Se c’è stato un 1918 per Mosca, si è trattato del 1991. In seguito, come in Germania dopo il fallimento di Weimar negli anni Trenta, il potere fascista e revanscista, e per di più corrotto, si è insediato in Russia, schiacciando la società civile, appropriandosi dell’intera economia del Paese, e sfidando il mondo democratico e l’ordinamento sul quale è fondata la nostra pace e la nostra sicurezza. Oggi non è più il 1918, bensì il 1939. E come per il Terzo Reich di Hitler, il cammino verso la pace prima o poi esigerà il rovesciamento del regime di Putin, che non corrisponde alla Russia e al suo popolo.
Solo una Russia libera, democratica e governata dai suoi cittadini potrà rientrare nel consesso delle nazioni e diventare un membro della comunità internazionale, come sono riusciti a fare, dopo il 1945, Germania e Giappone. Per i polacchi, i Paesi baltici e quelli dell’Europa centrale, questo concetto è talmente evidente che non perdono occasione per ribadirlo. Gli americani l’hanno capito e operano in questo senso in accordo con i britannici. Persino finlandesi e svedesi hanno abbandonato 80 anni di neutralità per cercar rifugio sotto l’ombrello della Nato, unica garanzia davanti alle mire folli del regime russo. In Europa occidentale, invece, i nostri governanti, da sempre prigionieri delle loro ideologie, sprofondati nella pigrizia intellettuale e nella fiacchezza morale indotta da una pace troppo lunga, sembrano tentati dal compromesso. Il compromesso è spesso necessario, ma in questa situazione sarebbe una catastrofe per il sogno europeo. Solo la sconfitta militare delle forze russe in Ucraina potrà restituire una parvenza di sicurezza al continente. E solo sulla base di una sconfitta russa si potranno siglare accordi che avranno una qualche possibilità di rivelarsi duraturi. Senza una vittoria ucraina la diplomazia non produrrà altro che chiacchiere inutili, o la capitolazione. «Non bisogna umiliare la Russia». Da vent’anni, più si fanno acrobazie per accomodare la Russia, più Putin accusa l’Occidente di volerlo umiliare. Che si sia disposti a prestarsi al suo gioco è sorprendente. In realtà Putin si umilia da solo, con la sua ambizione di sedersi tra i grandi della terra, senza rispettarne però le regole; disprezzando e violando i diritti dei popoli quando ne va del suo tornaconto. Se veramente ce l’ha con noi a morte, non siamo obbligati a presentargli le scuse: abbiamo il dovere di infliggergli una lezione e rispedirlo al suo posto, il posto che si è scelto di sua volontà.
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