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Zvi Mazel/Michelle Mazel
Diplomazia/Europa e medioriente
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E lo chiamano apartheid 20/06/2022
E lo chiamano apartheid
Analisi di Michelle Mazel

(traduzione di Yehudit Weisz)


Une militante anti-israélienne acharnée correspondante du
Clothilde Mraffko

Ci sono momenti speciali come questo, una scintilla di speranza nella lotta incessante di Israele contro dei nemici su ogni fronte. Mentre ancora una volta una coalizione di Paesi ferocemente contrari all'esistenza stessa dello Stato ebraico lancia contro di esso accuse di apartheid, ecco che arriva una risposta pungente. Potete giudicare voi stessi: “Sul piano economico, i palestinesi di Israele sono sempre più visibili nella società israeliana, in posizioni di responsabilità negli ospedali, nei tribunali, nelle università.” Hai letto bene. Vedo già gli scettici alzare le spalle. È una citazione tratta da questa stampa comunitaria che sotto vari titoli cerca valorosamente di lottare contro la demonizzazione di Israele, si raccontano. Non convincerà nessuno. Eppure si sbagliano. E’ su un grande quotidiano d’informazione che troviamo questa affermazione. Un giornale che giorno dopo giorno fustiga Israele; un quotidiano per il quale possiamo pensare che nessun commento sia troppo oltraggioso per essere rifiutato, nessuna accusa troppo poco plausibile. È infatti su Le Monde del 15 giugno che troviamo questo testo insindacabile. E no, non è neppure un forum, né un'opinione ma un reportage di Clothilde Mraffko, una giornalista accreditata presso l'Autorità Palestinese e reporter per Europa 1, su cui si può contare per presentare Israele nella luce più sfavorevole possibile. D’altronde, il titolo del suo articolo non lascia dubbi sulla sua “obiettività”: “Nelle città arabo-ebraiche d'Israele la situazione è esplosiva, è solo questione di tempo.” Per poi continuare: “Le violenze dell'anno scorso hanno messo a nudo le discriminazioni che i cittadini palestinesi di Israele devono subire in uno Stato che, secondo loro, ignora la loro esistenza.”

Per l'autrice, Israele ha effettuato dei trasferimenti di popolazione mentre “incoraggiava l'arrivo di ebrei israeliani, prima dal Marocco, poi dall'ex Unione Sovietica, popolazioni prevalentemente povere.” Ma non soffermiamoci su questi curiosi “ebrei israeliani” trovati in Marocco e poi nell'ex Unione Sovietica. Giunta al termine di questa requisitoria, Clothilde Mraffko sente il bisogno di mostrare una parvenza di buona fede sottolineando, come abbiamo visto sopra, che “sul piano economico, i palestinesi di Israele sono sempre più visibili nella società israeliana, in posizioni di responsabilità in ospedali, tribunali, università.” Un’affermazione che lei cerca di attenuare aggiungendo: “Ma questa ascesa sociale è in contraddizione con lo status politico in cui lo Stato li rinchiude, che li priva della piena espressione della propria identità nazionale.” Avremmo voluto che lei approfondisse il modo in cui questi “Palestinesi d'Israele” arrivano nonostante tutto a queste posizioni di responsabilità che danno loro sempre maggiore visibilità e aprono la strada alla loro ascesa sociale. Tuttavia, è difficile conciliare questo risultato con la realtà che lei vorrebbe presentare e ancor più difficile evocare l'apartheid.

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Michelle Mazel
scrittrice israeliana nata in Francia. Ha vissuto otto anni al Cairo quando il marito era Ambasciatore d’Israele in Egitto. Profonda conoscitrice del Medio Oriente, ha scritto “La Prostituée de Jericho”, “Le Kabyle de Jérusalem” non ancora tradotti in italiano. E' in uscita il nuovo volume della trilogia/spionaggio: “Le Cheikh de Hébron".

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