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La Stampa Rassegna Stampa
20.01.2003 Intervista a Ariel Sharon
Il primo ministro israeliano parla della guerra a otto giorni dalle elezioni

Testata: La Stampa
Data: 20 gennaio 2003
Pagina: 2
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Sharon: «Il mondo non può vivere con quel pericolo permanente»»
Riportiamo l'intervista di Fiamma Nirenstein al premier israeliano Ariel Sharon.
Di ottimo umore poco prima delle elezioni del 28 di questo mese, che certamente gli consegneranno di nuovo il ruolo di Primo Ministro, Ariel Sharon incontra un gruppo di giornalisti stranieri. Non spreca parole sulle accuse di corruzione: si sente abbastanza forte da accettare di affrontare di petto solo i grandi temi: la guerra con Saddam Hussein, Arafat, la pace, l'Europa, l'antisemitismo.


Signor Primo Ministro, non tutto il mondo pensa, come invece è dato per scontato in Israele, che la guerra contro Saddam Hussein sia una guerra giusta; in Europa, per esempio, si sottolinea come gli ispettori non mostrino nessuna «pistola fumante» che giustifichi l'attacco. La guerra è la scelta più drastica, che causa lutti immensi e innesca reazioni a catena. Israele tuttavia ne abbraccia in pieno la prospettiva anche se, in prima linea, rischia più di ogni Paese occidentale. Perché?

«In realtà vorrei, data la realtà che noi conosciamo, che si indicasse una possibilità diversa, ma basta osservare lo scenario per capire che la guerra è inevitabile e anche giusta. Chi sa che cosa sia il regime iracheno sa che quel Paese è governato da un tiranno sanguinario, che costruisce da anni armi di distruzione di massa. Si sa che ha usato armi chimiche persino contro i suoi propri cittadini uccidendo migliaia di curdi. L'Iraq è il campione nel campo delle armi di distruzione di massa, fomenta e finanzia il terrorismo, dona 25 mila dollari per ogni terrorista suicida palestinese, cerca continuamente di contrabbandare armi per i terroristi. Il mondo intero ha avuto la fortuna che Menahem Begin, nell'81, prese - col gabinetto di cui mi onoro di aver fatto parte - la decisione di distruggere i reattori nucleari di Saddam. Il mondo ci criticò. Dove saremmo adesso se non lo avessimo fatto? Oggi la cosa giusta è impedire all'Iraq di costruire e usare armi di distruzione di massa, di fomentare il terrore. Il mondo non può vivere con questo pericolo permanente: il terrorismo non è un problema tecnico, è un problema strategico; in realtà io mi aspetto che tutto il mondo libero si unisca per combatterlo».

Lei è disposto a pagare un prezzo molto alto, il più alto, per questa guerra. Pensa che Saddam vi attaccherà? In queste ore è in corso un'esercitazione congiunta israelo-americana: pensa che l'attacco sia imminente? Lavorate su questo? Avete assistenza dagli americani? Vi avvertiranno in tempo?

«Oggi il ministro della Difesa Mofaz, riferendo al Gabinetto, ha definito "bassa" la possibilità di attacco. Comunque è possibile. E, se saremo attaccati, abbiamo preso ogni precauzione possibile. Siamo pronti e tranquilli. Dopo l'esperienza del `91 la nostra attrezzatura è infinitamente migliorata. Comunque riteniamo questa guerra una guerra contro il terrorismo; una guerra che sosteniamo con tutti noi stessi, ma di cui l'America è il leader. Capiamo la delicatezza della situazione mediorentale e abbiamo la certezza che gli americani danno la massima attenzione ai problemi della nostra sicurezza».

E' preoccupato che dopo la guerra gli Stati Uniti possano esercitare forti e strumentali pressioni per ristabilire la quiete? Quanto a lei, Israele non sentirà la tentazione di intervenire pesantemente contro i palestinesi approfittando della confusione della guerra?

«No: noi non approffiteremo affatto della situazione. Da tempo avremmo ammorbidito la situazione se solo avessimo potuto; semmai sia i palestinesi, che nel `91 saltavano sui tetti invitando Saddam a colpire Tel Aviv, sia gli hezbollah che già si schierano con le armi in mano, devono stare attenti a non lasciarsi trascinare in un attacco ai nostri danni, che non passerebbe impunito. Quanto a pressioni americane, noi vediamo occhio a occhio con loro la necessità della pace. Ricordate: ho dichiarato di essere favorevole a uno Stato palestinese e di voler accedere a difficili concessioni nel momento più difficile per me, quello della primarie nel mio partito. Era il momento in cui il costo poteva essere più alto. (Netnayahu dichiarava che mai avrebbe dato uno Stato ai Palestinesi; ndr)».

Ma se lei è sincero nel promettere uno Stato ai palestinesi, perché insiste con una dura politica militare? Perché non cerca una strada per riavviarsi al tavolo delle trattative?

«Non dovrebbe essere difficile capire che se da una parte noi siamo pronti a concessioni molto serie sul fronte territoriale, non lo siamo affatto sul fronte della sicurezza. Non sono pronto a cedere di un millimetro sulla sicurezza per la nostra gente. Qui sono morte 720 persone innocenti in due anni di Intifada, un numero che negli Usa corrisponderebbe in proporzione a 40 mila persone; abbiamo 5000 feriti, sempre in proporzione 300 mila innocenti invalidati. Intere famiglie sono state distrutte, genitori e figli e nonni».

E quindi qual è il suo piano?

«Saremo l'unico Paese nella storia che cede terreno sebbene abbia vinto tutte le guerre. Ho previsto tre fasi: la prima prevede la cessazione totale del terrore. All'inizio, i palestinesi arrestino i terroristi e smantellino le loro strutture (Hamas, Jihad islamica, ecc) e le infrastrutture di finanziamento. Poi si cessi di incitare all'odio nelle scuole, alla tv, sui giornali e vengano fatti passi preventivi per impedire la creazione di nuovi nodi di terrore. Infine toccherà a noi per prima cosa creare con strade una contiguità territoriale perché i palestinesi usino le loro strade. Qui, se ci sarà tranquillità, partirà la trattativa per uno Stato totalmente demilitarizzato, che non potrà stabilire accordi con Stati nemici, disporrà di una polizia armata di armi leggere».

Lei è sincero? Fino a toccare lo Stato degli insediamenti?

«Lo dimostra il fatto che l'ho dichiarato prima della mia designazione».

Perché tutto questo processo non riesce ad avviarsi? I palestinesi non si fidano di lei.

«C'è una leadership palestinese che si rende conto che il rifiuto e l'attacco terroristico di Arafat è stato un errore terribile, che è costato anche a loro lacrime e sangue. Essi parlano di nascosto, ma sono bloccati da Arafat: finché lui sarà il leader dei palestinesi, niente sarà possibile. Sarebbe ora che gli europei capissero che Arafat è l'ostacolo, che mantenerlo come punto di riferimento costa tempo e sangue».

Lei ha dichiarato al settimanale Newsweek che il «quartetto» è inutile, inconsistente.

«Come ho detto, vedo le cose occhio a occhio col presidente Bush. E Putin comprende molte cose importanti. Ma l'Europa, per essere un interlocutore credibile, dovrebbe finalmente cercare di essere più equilibrata. Gli europei vengono qui e ci spiegano come dobbiamo risolvere i nostri problemi; vorrei avere un giorno la possibilità di fare altrettanto con loro. Io accetto e apprezzo tutti i leader europei, uno a uno: Berlusconi, Aznar, Chirac. Ma penso che sbaglino su Arafat. Dovrebbe essere rimosso per diventare una figura, se piace ai palestinesi, simbolica. Vorrei che gli Europei divenissero, finalmente, più equilibrati».

Lei vede la crescita dell'antisemitsmo in Europa come un fenomeno serio?

«Certamente sì: e anche se non è lo stesso mondo di un tempo, quel sentimento si sparge molto rapidamente. Lo abbiamo già conosciuto nel passato, sappiamo che cosa significa sottovalutarlo. E´ un pericolo non solo per gli ebrei, che spero che nel 2020 siano tutti in Israele, ma per tutto il mondo. Le democrazie devono levare la loro voce per fermarlo».
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