Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 04/06/2022, a pag. 1, l'analisi di Giulio Meotti dal titolo "I tamburi di latta".
Giulio Meotti
Günter Grass
"Non in nostro nome!”. Firmato da molti intellettuali tra cui il premio Nobel per la letteratura Günter Grass e il filosofo Jürgen Habermas, l’appello diceva che il terrorismo è un crimine e un flagello dell’umanità. Combattere il terrorismo è non solo un diritto, ma anche un dovere. “Ma siamo convinti che la guerra sia il modo sbagliato per sbarazzarsi del terrorismo”. Usciva poche settimane dopo l’attentato alle Torri gemelle, quando la coalizione occidentale era pronta a invadere l’Afghanistan e rovesciare il regime dei talebani che aveva aiutato i binladenisti ad abbattere le Torri. Ma per gli intellettuali tedeschi, la guerra non era lo strumento giusto. Il più noto tra questi, Peter Sloterdijk, docente di Filosofia a Karlsruhe, aveva appena sostenuto che gli attentati dell’11 settembre fossero “dei problemi ai grattacieli” che fanno parte dei “fatti minori” della storia. “Due o tremila morti in un giorno rientrano nella variazione naturale”, scrisse il filosofo. E ancora: “Si ha un nemico solo quando lo si può colpire, distruggere, eliminare. Gli islamisti radicali pianificano attacchi terroristici, ma non sono nemici. Sono solo una manifestazione perversa dell’industria dell’intrattenimento che è la stampa e ormai anche la politica. Il terrorismo è un programma di intrattenimento per l’ultimo uomo”. Il grande musicista tedesco Karlheinz Stockhausen, all’indomani dell’attentato al World Trade Center, aveva invece spiegato che si era trattato della “più grande opera d’arte mai realizzata”.
In piena Guerra fredda, il Nobel Grass aveva abbracciato il movimento pacifista e incitato i tedeschi a “resistere”, non contro l’egemonia sovietica, ma contro gli Stati Uniti e gli euromissili. Nel 1983 Grass ebbe perfino a dire: “Non c’è differenza fra la Conferenza di Wannsee (in cui si pianificò l’Olocausto, ndr) e il cinismo delle nostre simulazione di guerra”. Poi si scaglierà anche contro l’unificazione della Germania, da lui definita “un anschluss”, “un bottino”, visto che al grande scrittore il capitalismo faceva sempre un po’ schifo. E dopo l’11 settembre non poteva mancare una lettera aperta che Grass spedì all’allora presidente francese, Jacques Chirac, impegnato a delegittimare gli Stati Uniti alle Nazioni Unite durante la preparazione della guerra contro Saddam Hussein (“Signor Presidente della Repubblica, siamo grati alla Francia per quanto ha fatto per arginare la guerra…”). Poi, per molti anni, l’intellettuale tedesco pacifista è caduto nel sonno. Ora torna alla ribalta sulla guerra in Ucraina. E con lui la sindrome del “tamburo di latta”. Per generazioni, la Germania si è vantata non solo di essere campione del mondo nell’esportazione di automobili, ma anche nell’esportare un particolare tipo di serietà morale. Dopo aver commesso i peggiori crimini della storia durante la prima metà del XX secolo, nella seconda metà i tedeschi hanno rivendicato di essere i cittadini più esemplari del mondo. “Mai più” è la ragion d’essere dell’intellighenzia tedesca. Si vedono letteralmente come i pacificatori, le forze di pace dell’Europa. Alice Schwarzer, la principale femminista tedesca, onnipresente più che mai nei media, ha appena pubblicato una “Lettera aperta al Cancelliere Olaf Scholz” firmata da 28 intellettuali. E’ servita da catalizzatore per mobilitare l’opinione pubblica contro coloro che vogliono che la Germania faccia di più per aiutare l’Ucraina a fermare i russi. In diretta sulla televisione tedesca, il sociologo Harald Welzer ha letteralmente agitato il dito contro l’ambasciatore ucraino a Berlino, dicendogli che le esperienze tedesche in tempo di guerra giustificavano in qualche modo il rifiuto dei loro discendenti di dare armi all’Ucraina. Il più professorale di tutti i professori tedeschi, Jürgen Habermas, si è unito al coro della condiscendenza con un lungo articolo per la Süddeutsche Zeitung, in cui lodava Scholz per la sua “riluttanza”. Piuttosto che concentrarsi sugli ucraini e sui russi, Habermas ha riservato tutta la sua ira per coloro che “spingono in modo aggressivo e sicuro il cancelliere tedesco” verso la soglia della guerra. Nel 1993, quando lo storico e dissidente polacco Adam Michnik lo rimproverò di non aver trovato un’analisi fondamentale dello stalinismo nella sua opera, Habermas rispose che il timore di applausi dalla parte sbagliata lo aveva tenuto in silenzio. Ora 95enne, il più controverso tra i firmatari originali della lettera aperta è Martin Walser. Membro del Gruppe 47, il gruppo di scrittori del dopoguerra che ha reinventato la letteratura tedesca, Walser si è fatto conoscere con un discorso del 1998 a Francoforte, in cui protestava contro la “strumentalizzazione della nostra vergogna”. Affermò che il ricordo di Auschwitz era diventato un “club morale” a scopo di “intimidazione”.
Da allora Walser si è scontrato ripetutamente con i suoi critici, in particolare ebrei come Ignaz Bubis e Marcel Reich-Ranicki. Walser non ha mai nascosto il suo antiamericanismo (nel 2003 definì George W. Bush “un cowboy di second’ordine”). Un altro dei firmatari, Lars Eidinger, famoso per il suo “Amleto”, in tv nei giorni scorsi ha detto: “Da diciottenne ho rifiutato il cosiddetto servizio nella cosiddetta Bundeswehr. La domanda essenziale a cui dovevo rispondere era: quando uno dei miei cari viene minacciato con una pistola e ho avuto la possibilità di uccidere l’aggressore, come avrei reagito? La mia risposta è stata: non sparerei, per non servire la spirale dell’aggressività. Ancora oggi credo in questo ideale”. Il regista e scrittore Alexander Kluge a tredici anni fu testimone del bombardamento della sua città natale di Halberstadt. “Ti dirò che non me ne fregava niente dei confini del Reich del 1937 dopo i bombardamenti”, ha appena detto Kluge in un’intervista a Deutschlandfunk. “La resa non è male se pone fine alla guerra”, riferito all’Ucraina. In un’intervista al settimanale Die Zeit, anche il filosofo Sloterdijk si esprime contro la consegna di armi pesanti in Ucraina. “Devi resistergli (a Putin) in modo da non esasperare le sue tendenze”. La politologa Ulrike Ackermann, direttrice del John Stuart Mill Institute for Freedom Research, in un saggio per la Neue Zurcher Zeitung accusa questi intellettuali tedeschi di “disfattismo morale”. D’altronde i dibattiti pubblici in Germania sono sempre più soffocati dal moralismo. “Dieci comandamenti? Migliaia!”, Bernd Ulrich, un noto intellettuale progressista, ha esclamato in Die Zeit. “Il regno della moralità – ciò che è percepito come sotto controllo della morale – si è rapidamente ampliato”. Alice Schwarzer e i suoi compagni di pace, che rappresentano la metà della popolazione tedesca, vivono dell’eterna sventura tedesca, che assume spesso tratti narcisistici. Anche se gli altri stanno morendo: siamo noi le vittime! Il senso di colpa storico dell’era nazista si trasforma in un sentimento di vittima privilegiata. Nel famoso appello di Krefeld del 1980, che era diretto contro il dispiegamento dei missili americani a medio raggio, si parlava di una “corsa suicida agli armamenti”, senza menzionare i missili sovietici SS-20. “Das Ende des ideologischen Zeitalters” (“La fine dell’èra delle ideologie”) è il libro intrigante su come ricostruire le relazioni est-ovest che Willy Brandt ed Egon Bahr della leadership socialdemocratica hanno elogiato negli anni della Guerra fredda che si fece calda. Nella sua conclusione, l’autore, Peter Bender, ha tracciato un diagramma di come “l’Europa” – ovvero la Germania – potrebbe ritrovarsi ancora una volta: “Escluso che l’Europa possa europeizzare l’America, deve quindi assicurarsi che non diventi essa stessa più americanizzata. Ciò che sembra possibile è sostenere il processo secolare di europeizzazione della Russia e assisterlo in modo che non degeneri nell’americanizzazione”.
Per Peter Bender, la civiltà americana è demagogia. Se l’Europa si fosse rilassata a sufficienza nei confronti dell’Unione sovietica, questa avrebbe lasciato entrare la democrazia dalla porta principale. In modo simile, Dorothee Sölle, leader nel movimento antimissilistico e teologa della liberazione, su Der Spiegel chiese il disarmo unilaterale dell’occidente. Si mobilitarono per Nicaragua e Salvador, ma rimasero pressoché indifferenti alla Polonia. Dalla lotta contro la “pioggia acida” delle industrie tedesche passarono alla lotta contro gli euromissili. Qualcuno lanciò anche slogan strani, come “lieber rot als tot” (meglio rosso che morto). Due milioni di persone firmarono il cosiddetto “Appello di Krefeld” contro i missili americani e più di un milione sottoscrissero l’“appello per la pace” dei sindacati. Un milione di persone presero parte ai raduni, ai cortei, alle “catene umane” a Bonn, ad Amburgo, a Stoccarda, a Berlino Ovest, compresi tanti scrittori, come Grass e Heinrich Böll. Nel giugno 1983, in un leggendario e turbolento dibattito al Bundestag, il segretario della Cdu Heiner Geissler accusò il pacifismo degli anni 30 di Auschwitz. Il grande scrittore di origine tedesca Manes Sperber in un discorso di accettazione del premio della Fiera del libro di Francoforte disse: “Quello che sta accadendo oggi in Germania, con i suoi movimenti cosiddetti ‘alternativi’, tutti che agiscono in nome della liberazione – e, forse, anche di una libertà che rasenta la licenza – è davvero qualcosa a cui la dittatura degli anni 30 ha aperto la strada. Viene lanciato un appello alle ‘masse’ affinché si oppongano a uno stato la cui leadership di governo è stata equamente eletta, la cui maggioranza liberamente costituita comprende elettori apertamente registrati che votano a scrutinio segreto (cos’è questo se non un tentativo di sostituire quella che conosciamo come democrazia con un’oclocrazia?). E in nome di emozioni e passioni passeggere, le élite si arrogano il diritto di dettare le scelte per tutti”. E lo scrittore Peter Schneider, in un notevole saggio che sembra rivolto ai suoi amici, si chiese cosa significhi quando un gruppo di intellettuali che chiedono la pace non riesce a sviluppare anche un concetto di libertà. “Questo è il modo”, ha scritto Schneider, “in cui si va gradualmente verso l’accettazione di qualsiasi situazione che non sia la guerra atomica”. Più tardi, durante la guerra del Golfo del 1991, migliaia di lenzuola bianche furono appese a finestre e balconi in tutto il paese, come se i bombardieri alleati fossero di nuovo diretti in Germania. Nel 1991 sui muri di tutta la Germania si leggeva: “Comincia domani la terza guerra mondiale”.
“Quando tocca a noi?”, hanno chiesto i manifestanti davanti all’Università Humboldt di Berlino, sebbene gli unici Scud iracheni che caddero furono su Tel Aviv. “Niente sangue per il petrolio!” è stato il grido di battaglia che ha trasformato l’America nel vero aggressore. Il politico dei Verdi Hans-Christian Ströbele attaccò “la logica inevitabile conseguenza della politica israeliana nei confronti dei palestinesi e degli stati arabi”. E lo stesso scriverà Grass quando, nel 2012, si parlò di un possibile strike preventivo d’Israele contro le installazioni atomiche iraniane. L’amore tedesco dell’apocalisse si confonde e riappare sempre in modo assurdo fra proiezioni di colpa, fantasie di impotenza e moralistica onnipotenza. Una fuga di fronte alla realtà simile ai bambini che si coprono gli occhi con le mani e credono di non poter più essere visti. Tutto molto confortevole… Durante la guerra in Iraq, la Bild pubblicò una foto del cancelliere Gerhard Schröder con un’aria assonnata dopo un pranzo pesantuccio con il suo ministro dell’Interno, Otto Schily, in Toscana. Mentre gli americani si preparavano a entrare a Baghdad e a sacrificare cinquemila soldati, i leader tedeschi si gustavano un bicchiere di buon Chianti.
Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante