Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 03/06/2022, a pag. 2, con il titolo "Tra i soldati del Donbass cento giorni dopo: 'I russi sono troppi ormai stiamo perdendo' " la cronaca di Fabio Tonacci.
Fabio Tonacci
Nel Donbass non è mai veramente notte. I lampi senza pioggia rischiarano il cielo stellato a est, a nord e a sud: l’orizzonte di una tempesta permanente, che non se ne va e, anzi, si avvicina. Osservati dalla terrazza di un ostello di Pokrovsk, nel centro della tenaglia russa, i lampi del Donbass hanno questa caratteristica: parlano tra loro, conversando nel codice morse di luci ed esplosioni che, da cento giorni, è la lingua ufficiale del fronte più caldo dell’Ucraina. Il maggiore Vadym sa leggere il codice pure adesso che, sfinito dalla battaglia e mezzo sbronzo, si regge a malapena in piedi. «Laggiù a sinistra, ad Avdiivka, ci siamo noi». Indica col braccio un punto nel buio verso est, oltre la collina, alitando la mezza bottiglia di whisky da due soldi che si è scolato insieme a quel che rimane del suo gruppo, appartenente alla 57 esima brigata. «A destra ci sono imoskalì ». I moscoviti, come Vadym chiama con disprezzo qualsiasi russo a prescindere dalla provenienza, si trovano a Pisky, a meno di quattordici chilometri. Il punto a sinistra si accende. «Ora conta fino a quindici», fa Vadym. «Uno…due… tre...». A quindici, puntuale, si illumina il punto a destra. «In media ci vogliono quindici secondi per realizzare che non sei morto, rimetterti in posizione e rispondere al fuoco col mortaio. Questo scambio di colpi durerà fino a domattina. Ma vuoi sapere cosa succederà tra qualche giorno? Nel cielo vedrai solo lampi russi, perché abbiamo finito le munizioni dell’artiglieria pesante che è pure vecchia, la usavano i sovietici». Sono le tre, l’ora delle confessioni. Sarà l’alcol, sarà la delusione, sarà che a Vadym nel pomeriggio è toccato seppellire uno dei suoi in un buco scavato per terra ad Avdiivka segnandolo con una croce di rami, ma i soldati ucraini stanotte hanno voglia di parlare. Senza più nascondersi nella propaganda esaltata imposta dai comandi militari e nel patriottismo che fa negare l’evidenza. «Perdiamo 600 uomini al giorno». La sentenza del maggiore fa calare il silenzio. All’orizzonte, i lampi di un temporale inesistente. «Cento morti, cinquecento feriti: questa è la media. Non possiamo durare. Severodonetsk cadrà a breve, quindi o avremo i missili degli americani o ci dobbiamo preparare alla ritirata. I nemici sembrano infiniti, hanno riserve, forze fresche, non gliene frega niente di mandarle al massacro. Noi siamo sempre gli stessi e sempre di meno...». All’inizio del conflitto da queste parti erano 30.000 unità. La 57 esima brigata contava 700 uomini, ora sono in 115.
La 110ma brigata è dimezzata, la 58 esima è un terzo di quella che era. La matematica non ha bisogno di spiegazioni. Il presidente Zelensky, dopo 100 giorni, fa il bilancio e ammette che tra Lugansk e Donetsk il suo esercito viene decimato. «Le forze della Federazione controllano il 20 per cento del Paese. Hanno distrutto quasi l’intero Donbass ucraino, che era uno dei centri industriali più potenti d’Europa». Le decine di miniere di carbone e gli impianti petrolchimici che ne hanno fatto la fortuna bruciano sotto le bombe. Per l’Onu le vittime civili della guerra voluta da Putin sono 4.149, secondo la stima di Kiev sono cinque volte di più. Meglio non pensarci, quando si fa avanti e indietro dalla linea del fronte su vecchie Lada scassate degli anni Settanta, come accade ai militari acquartierati a Pokrovsk. Sulla terrazzadella verità negate sono rimasti il maggiore Vadym (36 anni), il sergente Maxsim (42 anni) e il soldato semplice Eugen (24 anni). Si versano altra birra nei bicchieri plastica. Maxim si è fatto prendere dalla nostalgia e, nonostante l’ora tarda, ha videochiamato sua moglie che vive con la figlia ad Amsterdam. Lei non ha risposto. Eugen ha scritto sul petto “Simul ad victoriam”, il motto della 58 esima brigata motorizzata che era dispiegata a Sumy prima che il Cremlino decidesse, alla fine di marzo, di concentrare gran parte della sua potenza di fuoco attorno a un unico punto della mappa: Severodonetsk, la città che una volta contava 103 mila abitanti e ora solo 10 mila, un migliaio dei quali nascosti a pregare nei sotterranei della fabbrica Azot. L’80 per cento è in mano russa, nel centro ci sono i ceceni.
Nell’ultimo mese la morsa tattica elaborata dai generali di Mosca si sta stringendo per servire a Putin su un piatto di distruzione l’ultima grande città della regione di Lugansk non ancora occupata dai filorussi. Dovranno però passare sul cadavere di Eugen, che non si stacca mai dal suo kalashnikov neanche quando è in tuta e in ciabatte con un bicchiere in mano. «È l’unica arma che ho e di cui non temo che finiscano i proiettili». I cannoni M777 inglesi sono arrivati, però sono pochi. «Ci vogliono due settimane per imparare ad usarli». Gli obici italiani sono utili, non bastano. Servono i lanciamissili a medio raggio americani, che ancora non si vedono. La pelle di Eugen è segnata e non solo dal tatuaggio. Sul lato destro del collo ha uno sfogo. «Psioriasi da stress, da quando faccio l’autostrada della morteho cominciato a perdere anche i capelli. A 25 anni, ci credete?». L’autostrada della morte sono 67 chilometri di asfalto che partono da Bakhmut, a un’ora di macchina da Pokrovsk, e arrivano a Lysychansk dove c’è il ponte distrutto sul fiume Severskij Donec, barriera naturale oltre la quale gli ucraini stanno ritirandosi e riorganizzando la difesa, in attesa di armamenti più potenti. «Su quella via hai il 50 per cento di possibilità di saltare in aria». Eugen fuma le Winston e sorride quando sente parlare di cento giorni di guerra, lui ha un calendario diverso. «Per il Donbass sono otto anni e cento giorni che si combatte». Il maggiore si alza e barcolla fino alla ringhiera, lo sguardo fisso all’orizzonte e al balletto ipnotico di luci silenziose e portatrici di morte. «Quando a Kiev festeggiavano la liberazione della capitale, abbiamo visto calare colonne di tank e lanciamissili russi. Era il 25 marzo, me lo ricordo bene. Non ne parlò nessuno, allora. In 24 ore ce li siamo trovati vicino a Severodonetsk, non hanno mai più smesso di martellarci...». Putin vuole gli interi territori di Lugansk e Donetsk, poi cos’altro lo sa solo lui: forse tornerà al tavolo di pace o forse tirerà dritto verso il cuore dell’Ucraina, provando a prendere da est quel che non è riuscito a prendere da nord con l’assedio di Kiev. Nel Donbass senza notte si deciderà la seconda fase. Il segretario generale della Nato Stoltenberg dice che bisogna prepararsi a una guerra lunga. Ma questo il maggiore Vadym, il sergente Maxsim e il soldato semplice Eugen lo sanno già.
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