Usa-Cina, sfida oltre l’Ucraina Editoriale di Maurizio Molinari
Testata: La Repubblica Data: 29 maggio 2022 Pagina: 1 Autore: Maurizio Molinari Titolo: «Usa-Cina, sfida oltre l’Ucraina»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 29/05/2022, a pag. 1, con il titolo "Usa-Cina, sfida oltre l’Ucraina", l'analisi del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
Volodymyr Zelensky
Ad oltre tre mesi dall’inizio dell’invasione ordinata da Vladimir Putin, le posizioni delle uniche due superpotenze del Pianeta sul conflitto sono apparentemente ben definite. Gli Stati Uniti nel ruolo di leader della coalizione politico-militare che sostiene la resistenza ucraina e la Cina in quello di maggior partner economico-politico di Mosca ma facendo ben attenzione ad evitare ogni coinvolgimento bellico. Con il passare delle settimane diventa tuttavia evidente che questa contrapposizione è, per entrambi, solo un punto di partenza in una cornice ben più vasta perché sia Washington che Pechino sono impegnate in un duello strategico per assicurarsi la leadership globale. E dunque stanno iniziando a giocare la “carta ucraina” in maniera assai più articolata, sofisticata, per tentare di rafforzarsi, una a dispetto dell’altra. Incominciamo da Xi Jinping, il presidente cinese che il 21 aprile è intervenuto al “Forum di Boao per l’Asia” presentando la propria risposta strategica alla guerra ucraina ovvero la “Global Security Initiative” per «proporre la sicurezza in tutto il mondo» basandosi sul principio della «sicurezza indivisibile» al fine di costruire un’architettura internazionale «bilanciata, sostenibile ed efficace». È un linguaggio che evoca — alla lettera — gli accordi di Helsinki 1975 che, durante la Guerra Fredda, diedero inizio alla stagione della distensione fra Usa e Urss. I punti-chiave dell’“Iniziativa di sicurezza globale” sono sei: sicurezza comune e sostenibile; rispetto di sovranità e integrità di tutti gli Stati, con il relativo principio di non-interferenza; rispetto della Carta dell’Onu e “rifiuto della contrapposizione fra blocchi”; rispetto delle istanze di sicurezza di ogni Paese; risolvere le differenze con il dialogo e senza ricorrere alle sanzioni; coordinamento collegiale su terrorismo, cybersecurity e cambiamenti climatici. È una piattaforma che tiene assieme la richiesta di Putin alla Nato di non minacciare la Russia, il rispetto della sovranità dell’Ucraina e una visione globale basata su garanzie per tutti gli Stati ma senza alcun riferimento ai diritti umani, vero tallone d’Achille di Pechino come di ogni autarchia, regime o dittatura.
Con la guerra Putin uccide l'economia russa
Tale approccio “globale” ripete, sul fronte della sicurezza, l’impostazione della “Belt and Road Initiative” — la Nuova Via della Seta per accelerare l’interconnessione dei mercati — e mira a consolidare attorno alla Cina il consenso della maggioranza dei Paesi, a prescindere da tipologia di governi e colori politici, grazie ad una formulache assegna a Pechino il ruolo di garante universale. Si spiega così l’intenso attivismo cinese di questi tre mesi che — all’ombra della Russia — ha portato un importante numero di Paesi ad astenersi nei voti all’Onu sull’Ucraina, riuscendo fra l’altro a limitare al numero di appena tre le nazioni asiatiche che aderiscono alle sanzioni occidentali anti-Putin. E ancora: l’offensiva diplomatica cinese nel Pacifico, dalle isole Salomone a Kiribati, dimostra come la somma fra commerci e sicurezza consente a Pechino di aspirare ad avere una propria sfera di influenza nello scacchiere del Pacifico. La contromossa della Casa Bianca è stato un viaggio in Estremo Oriente che ha visto Biden annunciare l’Iniziativa economica dell’Indo-Pacifico (Ipef) assieme ad una dozzina di nazioni, dal Giappone all’India, che rappresentano circa il 40 per cento del Pil globale al fine di «scrivere il futuro dell’economia nel XXI secolo nella nostra regione» creando un evidente contrappeso rispettoal gigante cinese, considerato troppo invadente. I quattro pilastri dell’Ipef sono un’economia “connessa”, “giusta”, “resiliente” e “pulita” per poter crescere facendo coincidere innovazione, tutela del clima e lotta alle diseguaglianze. È una ricetta che punta a contrapporsi alla “Belt and Road Initiative” e che, anche in questo caso, si accompagna ad una mossa sulla sicurezza ovvero la scelta di Biden di sfruttare la tappa nipponica per affermare — per la prima volta — che gli Stati Uniti sono pronti a ricorrere alla forza per difendere l’isola di Taiwan se venisse aggredita dalla Cina. Il passo della Casa Bianca è teso a far sapere a Pechino che come l’America difende la sovranità dell’Ucraina per ostacolare tentativi neo-imperiali di Mosca in Europa dell’Est non esiterebbe a fare altrettanto — spingendosi anche oltre la fornitura di armi — se Pechino cedesse a simili tentazioni lungo i propri confini marittimi. Ma ciò non significa che Washington si prepara ad una guerra in Estremo Oriente, anzi. Come ha riassunto il Segretario di Stato Usa, Antony Blinken, parlando tre giorni fa alla George Washington University «l’America non cerca un conflitto con la Cina e neanche una nuova Guerra Fredda» bensì una «coesistenza basata su regole internazionali condivise per mantenere pace e sicurezza». Anche in questo caso il riferimento a “regole comuni” su “pace e sicurezza” riporta agli accordi di Helsinki del 1975. Ponendo l’interrogativo se Washington e Pechino, ognuno seguendo una propria strada, stiano convergendo sulla necessità di un’intesa di ampio respiro a garanzia della propria competizione globale. E per evitare che conflitti come quello ucraino rischino di riportare indietro il Pianeta di almeno un secolo. Saranno i prossimi mesi a dirci se Biden e Xi stanno convergendo verso una realpolitik ispirata agli scritti — anche molto recenti — dell’ex Segretario di Stato Henry Kissinger, che fu l’artefice del disgelo fra Nixon e Mao. Nella consapevolezza che, ora come ad Helsinki 1975, il nodo che continuerà a dividere le democrazie dal proprio rivale globale resteranno i diritti umani.