Boati, fame e solitudine: 'In due settimane i russi saranno anche qui' Cronaca di Marta Serafini
Testata: Corriere della Sera Data: 27 maggio 2022 Pagina: 5 Autore: Marta Serafini Titolo: «Boati, fame e solitudine: 'In due settimane i russi saranno anche qui'»
Riprendiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 27/05/2022, a pag. 5, con il titolo "Boati, fame e solitudine: 'In due settimane i russi saranno anche qui' ", la cronaca di Marta Serafini.
Marta Serafini
Kramatorsk. «Non ricevevo le medicine da un mese. Mi avete salvato la vita». Periferia di Kramatorsk, la notizia che i russi hanno preso Lyman, quaranta chilometri più a nord, è arrivata solo da due ore. Prossimo obiettivo Slavisansk, ultima via di uscita da Severodonetsk e porta per Kramatorsk. In mezzo, in trappola, poche centinaia di civili, tra chi non se vuole andare e chi non può. «Ho il Parkinson, sono sola e se nessuno mi porta le pillole, muoio. Io muoio». Tremano le mani di Caterina, mentre ci cadono sopra le lacrime. Nel cielo, i boati dei missili e dell’artiglieria mentre la sirena non smette di urlare. Fuori dal cancello, i tulipani e i gigli piantati poche settimane fa. Qualche via più in là, vicino alla fabbrica bombardata, anche le signore Liuba e Valentina accolgono con sollievo un pacco di pannoloni. Servono per Liuba che non si può alzare dal letto. Il materasso è intriso di urina, l’aria è irrespirabile. Sul comodino, una ciotola di zuppa rancida. In cucina, un fornelletto vecchissimo. «Perché qui di cibo non ce n’è praticamente più. E quel poco che si trova costa oro. Da settimane, poi manca il gas». Inferno Donbass. «Perché resto? Perché mi devo prendere cura di queste persone». È Elena che fa la spola avanti e indietro tra il centro aiuti e le case dei vicini. Chi se n’è andato le ha lasciato le chiavi. Chi è rimasto le chiede aiuto per farsi portare i pacchi di cibo. «Guarda cosa ho scritto su Facebook». Apre il suo profilo sul telefono. Gli occhi azzurri, tristi. Racconta di avere il diabete. «Mi devo curare con l’insulina».
In un lungo post descrive le condizioni delle case di cui è diventata custode. «Alcune sono distrutte. Altre sono ancora in piedi e cerco di tenerle vive, dando da mangiare ai cani che altrimenti diventano feroci. In un’altra ho innaffiato i fiori che così almeno qualcosa rimane». Ma non ci sono solo le case di cui prendersi cura. Lungo la strada passa un ragazzino in bicicletta. «È il figlio di una mia amica, non è voluto partire con la madre. E io ora gli butto un occhio». Non fa in tempo a dirlo che un altro boato scuote il terreno. Scendiamo con lei nel suo rifugio. «L’ho preparato per ogni evenienza», dice orgogliosa. Poi si gira verso una sedia. «Ci abbiamo fatto un buco in mezzo e messo un secchio sotto. Così abbiamo anche il water. E siamo pronti a restare qui anche per un mese, se necessario». In centro, alla stazione, la stessa dove l’8 aprile sono morti in 57 uccisi da due missili mentre tentavano di fuggire, a terra ci sono ancora i segni lasciati dall’esplosione. Dall’altra parte della piazza, il ristorante Celentano è chiuso. «Lavoravo lì come cameriere, ora porto i giornalisti verso la frontline», spiega Sergey. Al checkpoint di ingresso della città, un soldato chiede dove siamo diretti. «Benvenuti a Kramatorsk, questa è già frontline non lo sapete?» scherza. Per i russi la strada per Kramatorsk è ancora lunga «ma se va avanti così in due settimane ci sono», prevede Sergey. «Io voglio andare a Lugansk, dal lato russo». Una donna sulla settantina si avvicina all’automobile. Chiede di abbassare il finestrino. È agitata. «Perché vuoi andare dall’altra parte, sei pazza nonna?», le chiede Sergey. «Non importa se sono russi o ucraini. Qua muoio di fame». Kramatorsk fantasma. Kramatorsk con tutti i negozi chiusi ma con gli addetti comunali che tagliano i rami degli alberi «che così almeno diamo qualcosa da fare alle persone», dice Alexander Ivanov, volontario di Tato hub, ong che distribuisce gli aiuti. Kramatorsk che accoglie gli ultimi in fuga da Severendonetsk, la nuova Mariupol, cui i russi cercano di stringere il cappio intorno. «Sono preoccupato per Tiopa, non mangia quasi più». Stringe a sé il suo micio tigrato, Anatoli Alexandrovic. Ha 75 anni, è arrivato questa mattina e ora sta per salire sul pulmino che lo porterà verso Dnipro. «Dovevo andarmene, altrimenti Tiopa non sarebbe sopravvissuto. Viviamo insieme da 16 anni, da quando mia moglie è morta». Con lui ci sono anche la signora Tatiana e Svetlana che si sorreggono a vicenda. Anziane, sole, impaurite. «Non abbiamo una casa dove stare. Siamo rimaste anche dopo il 2015. Abbiamo resistito sempre. Ma ora, no. Ora è troppo».
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