L’ ‘Ideologia della rabbia’ arriva al Congresso degli USA
Analisi di Ben Cohen
Rashida Tlaib
E’ il tipo di risoluzione che ci si aspetterebbe venisse presentata all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite o persino al Parlamento iraniano, il Majlis, ma di certo non al Congresso degli Stati Uniti. La settimana scorsa, un gruppo di legislatori democratici di sinistra, guidato dalla repubblicana Rashida Tlaib e sostenuto dai suoi colleghi della Camera, Alexandria Ocasio-Cortez (D-N.Y.), Ilhan Omar (D-Minnesota), Cori Bush (D-Missouri ), Jamaal Bowman (D-N.Y.), Betty McCollum (D-Minnesota) e Marie Newman (D-Illinois), hanno presentato una risoluzione sul tema della nakba — una parola araba che significa “disastro” o “catastrofe” che i palestinesi usano come parola simbolo quando parlano della creazione dello Stato di Israele nel 1948. In linea con il linguaggio e i temi che caratterizzano le accuse tradizionali contro Israele da parte delle Nazioni Unite, la risoluzione ritrae lo Stato ebraico come un ostinato colonizzatore. La risoluzione afferma : “[La] Nakba si riferisce non solo a un evento storico, ma anche a un processo in corso di esproprio della terra palestinese e alla spoliazione del popolo palestinese da parte di Israele che continua tuttora.”
Non dovremmo farci illusioni sul messaggio centrale di questa risoluzione. Senza dirlo esplicitamente, essa nega di fatto il diritto di Israele di esistere secondo quanto invece stabilito dalla risoluzione 194 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del dicembre 1948, che prevede il diritto dei palestinesi, fuggiti da Israele durante la Guerra d'Indipendenza in quell'anno, di tornare alle loro case originarie o di ricevere un compenso. Per di più gli originari 750.000 rifugiati ora sono più di 5 milioni: grazie al trasferimento dello status di rifugiato alle successive generazioni di palestinesi, l'incorporazione di una popolazione così enorme e in gran parte ostile entro i confini di Israele comporterebbe quasi certamente spaventosi atti di terrorismo e di violenza, così come l’annientamento di uno Stato ebraico sovrano. Anche se la risoluzione non demonizza esplicitamente il sionismo come forma di razzismo, come le Nazioni Unite avevano invece asserito apertamente nel 1975, questa è la conclusione a cui i suoi autori vorrebbero giungere. Questo non è un appello per un accordo storico tra sionismo e nazionalismo palestinese basato sul compromesso e su una spartizione finale della terra tra Stati sovrani. Questa risoluzione è invece un classico pistolotto antisionista che nega sia l'indigeneità della popolazione ebraica che la legittimità del suo progetto nazionale. È, in altre parole, la versione del “peccato originale” derivante da quella storia secondo cui gli ebrei hanno rubato la terra palestinese e poi giustificato il furto invocando un passato inventato - lo stesso identico discorso che ha tormentato per decenni gli sforzi di pace insistendo sul fatto che la risoluzione della questione palestinese richiede a Israele di cessare la sua esistenza come Stato indipendente, e agli ebrei di ammettere che non sono una nazione ma una confessione.
Tra le molte distorsioni del passato e del presente contenute nella risoluzione, una delle più madornali è quella di affermare che il trasferimento dello status di rifugiato attraverso più generazioni di palestinesi è legalmente e moralmente giustificato. E poi precisa: “Il protrarsi della situazione dei rifugiati è il risultato di un’incapacità di trovare soluzioni politiche alle loro crisi politiche sottostanti.” L'UNRWA, l'agenzia per i rifugiati dedicata esclusivamente ai palestinesi, dice più o meno lo stesso: “Secondo il diritto internazionale e il principio dell'unitarietà familiare, anche i figli dei rifugiati e i loro discendenti sono considerati rifugiati finché non viene trovata una soluzione durevole.” La Convenzione delle Nazioni Unite sui Rifugiati del 1950 elenca una serie di circostanze in cui lo status come rifugiato di un individuo non sarebbe più applicabile, ad esempio adotti la nazionalità del proprio Paese di rifugio o attraverso la risoluzione del conflitto che ha provocato lo sconvolgimento della popolazione civile. Negli ultimi 50 anni sono state avanzate numerose soluzioni politiche che avrebbero portato all'autodeterminazione palestinese e quindi alla risoluzione della questione dei profughi, ma l'ostacolo per la leadership palestinese è stata la sua riluttanza a riconoscere che l'esistenza di Israele non è negoziabile ed è definitiva.
Nel frattempo, invece di chiedere i diritti fondamentali per i discendenti dei profughi palestinesi nei Paesi in cui sono nati e in cui vivono -avere il diritto di proprietà, svolgere attività e professioni di loro scelta, viaggiare liberamente con un passaporto, insieme ad altri diritti che sono attualmente negati dalle nazioni ospitanti - i sostenitori dei palestinesi nei Paesi occidentali come Tlaib rimangono irremovibili sul fatto che la loro miserabile posizione debba rimanere inalterata fino a quando Israele, lasciato solo, non sarà costretto a cedere. Questo programma eliminazionista si maschera da umanitarismo. La risoluzione ci dice anche molto sulla determinazione della lobby palestinese a gettare sospetti sulla simpatia e solidarietà con Israele dimostrate dalla maggioranza degli ebrei americani. Quando si esamina l'impatto delle varie iniziative antisioniste negli Stati Uniti e in Europa negli ultimi 20 anni, diventa subito evidente che il loro effetto principale è stato quello di diminuire la sicurezza delle comunità ebraiche della diaspora. La campagna del BDS che metterebbe in quarantena Israele dal resto della comunità internazionale come preludio alla sua dissoluzione, non è evidentemente riuscita a influenzare la situazione in Medio Oriente ma ha cacciato con successo gli ebrei dai sindacati, trasformato i campus universitari in zone di guerra ideologica e persino incoraggiato la violenza antisemita. I molteplici assalti agli ebrei denunciati durante le manifestazioni contro Israele che hanno accompagnato il conflitto di 11 giorni a Gaza l'anno scorso in questo stesso periodo - avvenute sotto lo slogan “Palestina libera” - sono state l'indicazione più evidente che il movimento filo-palestinese ha abbracciato l'idea che gli ebrei sono collettivamente colpevoli, ovunque tu possa trovarli. Se mai succedesse qualcosa, l'intensità di quest'ultima offensiva non potrà che aumentare.
Martedì scorso, tre giorni dopo che un suprematista bianco aveva sparato a 13 persone in un supermercato in un quartiere afroamericano di Buffalo, New York, citando come giustificazione la teoria del complotto antisemita e razzista della “Grande sostituzione”, decine di organizzazioni musulmane americane hanno rilasciato una dichiarazione in cui denunciavano Jonathan Greenblatt , amministratore delegato e direttore nazionale della Lega anti-diffamazione, per un discorso del 1 maggio in cui ha definito l'antisionismo non solo una forma di antisemitismo, ma una “ideologia radicata nella rabbia” che “richiede un rifiuto volontario persino di una storia superficiale del giudaismo e della lunga storia del popolo ebraico.” Greenblatt ha poi menzionato una serie di episodi negli Stati Uniti in cui gli obiettivi degli attacchi un tempo rivolti al “sionismo” erano ebrei comuni. Per contro, invece di confrontarsi con questa realtà, poiché molti degli assalitori durante l'esplosione di violenza antisemita dello scorso maggio erano giovani arabo-americani, queste organizzazioni hanno scelto di fare le vittime, lamentando che i sordidi incidenti raccontati da Greenblatt sono stati una diffamazione contro gli attivisti per i diritti umani. Colmare questo baratro è impossibile perché il risultato temuto da israeliani ed ebrei in tutto il mondo, la dissoluzione dello Stato ebraico che è nato quasi 80 anni fa, viene presentato come desiderabile e nobile dalla lobby della “Palestina libera.”
Altrettanto impossibile è la prospettiva che questa stessa lobby riconosca che gran parte del discorso pro-palestinese è contaminato da idee faziose sugli ebrei. Ai loro occhi, se l'antisemitismo esiste, allora è appannaggio della sola estrema destra. Le sfide per la comunità ebraica non sono esattamente nuove, come può testimoniare chiunque abbia seguito la febbrile polemica sull'antisionismo e l'antisemitismo negli ultimi due decenni. Ma ciò che è cambiato in questo lasso di tempo è la percezione che la comunità internazionale ha del conflitto israelo-palestinese. L'idea sempre stravagante che la pace nel mondo dipenda in qualche modo dalla creazione di uno Stato palestinese non viene più presa sul serio, mentre Israele gode di una crescente accettazione nelle istituzioni internazionali, anche all'interno di alcune delle agenzie e dei comitati delle Nazioni Unite, e tra le stesse Nazioni arabe e musulmane. Coloro che hanno veramente a cuore il futuro dei palestinesi dovrebbero incoraggiarli a trovare il loro posto all'interno di questo nuovo ambito, piuttosto che lottare per un ritorno a quello vecchio.
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate