Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 16/05/2022, a pag. 4, con il titolo "Perché l’islam ha un problema con le donne", l'analisi di Annalisa Chirico.
Saman
Saman somiglia alle sue coetanee, figlie di genitori pakistani o marocchini, egiziani o bengalesi, di solito appartenenti a famiglie di religione islamica, che vorrebbero vivere all’occidentale, come le giovani italiane, e proprio per questo sono costrette a scontrarsi quotidianamente con i divieti e le prescrizioni imposte dai familiari. La domanda scomoda, allora, è la seguente: quante sono le Saman senza nome, e senza protezione, che vivono da recluse tra le mura domestiche? Quante sono le Saman senza nome che abitano come anime clandestine i nostri quartieri, a pochi passi da noi? Le vediamo camminare in strada e le riconosciamo dal velo o dallo sguardo vigile della madre che non le perde d’occhio un istante, e tutto appare normale mentre queste ragazze vengono private del diritto di andare a scuola, uscire con gli amici, indossare un paio di jeans, fidanzarsi perché innamorate e non per un’imposizione familiare.
[…] Gli Accordi di Abramo, lungi dall’essere una panacea, indicano una direzione nuova: contro il jihadismo globale, o almeno per attenuarne i risvolti più cruenti, è urgente promuovere una visione rinnovata, e pacifica, dei rapporti tra Israele e il mondo arabo. In questo senso, si rivela necessario mostrare gli effetti positivi e le opportunità di crescita e sviluppo legate a una inedita cooperazione con Tel Aviv. Gli Accordi di Abramo rappresentano una pietra miliare nella storia delle relazioni tra Israele e il mondo arabo. Sono un successo della politica estera dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump e della perseveranza strategica dell’ex premier israeliano Benjamin Netanyahu. La filosofia di fondo è semplice: tra paesi vicini è meglio fare business che fare la guerra. La umma si mostra tutt’altro che monolitica dal momento che un pezzo importante del mondo arabo sottoscrive un accordo di pace e mutuo riconoscimento con lo stato d’Israele, è l’alba di un nuovo Medio Oriente. La firma, avvenuta il 15 settembre del 2020 tra i rappresentanti di Israele, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti, sotto l’egida dell’alleato americano e con una solenne cerimonia alla Casa Bianca, non basta a far ottenere la rielezione di Donald Trump ma segna, nondimeno, un tornante storico. “Conosco il prezzo della guerra”, scandisce Netanyahu, a margine dell’evento, citando l’ex primo ministro Yitzhak Rabin in occasione degli accordi di Oslo nel 1993, quando alla Casa Bianca c’era il democratico Bill Clinton. Negli accordi, intitolati ad Abramo, la figura biblica comune ai fedeli delle tre religioni monoteistiche, si normalizzano le relazioni tra i contraenti con l’impegno di aprire reciprocamente le rispettive sedi diplomatiche. Gli accordi, sebbene siano intitolati “trattati di pace”, non offrono una soluzione alla questione palestinese, anzi dalle parti dell’Autorità nazionale di Ramallah essi vengono additati come un “tradimento” della causa palestinese. Lo stesso vale per il gruppo terroristico Hamas che persegue un obiettivo preciso, espressamente dichiarato nel suo atto fondativo, vale a dire l’eliminazione di Israele dalle carte geografiche. Eppure la svolta c’è perché dai due patti bilaterali Israele-Eau e Israele-Bahrain, insieme alla dichiarazione generale, per mano del premier israeliano Netanyahu, del ministro degli Esteri emiratino Abdullah bin Zayed e del capo della diplomazia bahreinita Abdullatif Al Zayani, nasce una nuova coalizione mediorientale, fortemente appoggiata dall’amministrazione americana, determinata a rafforzare gli scambi economici e culturali, e a scongiurare il pericolo di un Iran dotato dell’arma nucleare. I patti bilaterali prevedono una stretta cooperazione in diversi settori come il turismo, la finanza, gli investimenti, la salute e soprattutto la sicurezza. […] Per la prima volta in assoluto, la normalizzazione dei rapporti tra Israele e un paese arabo non poggia più sulla causa palestinese che smette di rappresentare una precondizione irrinunciabile. In altre parole, il merito di questi accordi sta nel superamento del tabù palestinese, fulcro delle passate relazioni tra Israele e gli stati arabi. Adesso le priorità sono altre, in primis la necessità di bilanciare l’asse geopolitico tra Iran e Turchia, e poi i benefici derivanti dal potenziamento degli scambi economici, commerciali e tecnologici. […]
Se non ci si oppone, se non si combatte, il jihad vincerà. E’ una guerra che non abbiamo voluto né cercato ma dobbiamo ugualmente difenderci. E la difesa richiede attività di intelligence e presenza militare, coordinamento e condivisione tra i paesi occidentali, costretti a fronteggiare, ogni giorno, il “jihadismo d’atmosfera” che rende il terrorismo islamico una minaccia immanente. Le storie di Prigioniere hanno un filo rosso: l’islam. Queste giovani si ribellano al patriarcato imposto in nome di una interpretazione fondamentalista dei testi sacri. La religione viene strumentalizzata, non di rado manipolata, al fine di soggiogare le mogli e le figlie con la pretesa di comandare nella loro vita. Chi rifiuta la sottomissione alla dittatura dell’islamicamente corretto, alle prescrizioni e ai divieti imposti nel nome di Allah, tradisce la comunità, ne macchia l’onore e va perciò punito. Chi si oppone diventa un nemico da eliminare. Come Italia, come Europa, come Occidente, abbiamo il dovere di occuparci di queste giovani donne: indipendentemente dalla nazionalità indicata sul passaporto, le donne islamiche che vivono regolarmente nel nostro paese hanno il diritto di veder rispettata la propria autonomia individuale. E quando decidono di ribellarsi denunciando le violenze e i soprusi subiti, devono poter contare su una rete di aiuto e assistenza che ancora oggi è gravemente carente nel nostro paese. Non è semplicemente il dramma delle seconde generazioni, è il dramma di qualunque democrazia incapace di spezzare la catena delle ingiustizie e di applicare le leggi di uno stato di diritto. Chi vuole vivere regolarmente in Italia, anche nell’aspettativa legittima di guadagnare salari più alti di quelli disponibili nel paese di origine, deve avere la chiara consapevolezza che sarà tenuto a rispettare la Costituzione, a conoscerne la lingua e i valori in essa cristallizzati. Non sono ammesse eccezioni. Il nemico dell’Occidente non è Allah, il nemico è l’islam politico che promuove il jihad globale e, nei paesi europei, ricorre a una strategia ancora più insidiosa, la dawa, che si concretizza in molteplici attività di propaganda e proselitismo musulmano. Non tutti gli islamici sono terroristi, certo. Ma tutti i terroristi sono islamici, e questo vorrà pur dire qualcosa. L’unica religione che condanna l’apostasia con la morte è l’islam. Per fortuna, la comunità islamica non è un monolite: le componenti illuminate e modernizzatrici vanno sostenute perché il cambiamento deve partire all’interno della umma. Non è concepibile che certi versetti del Corano vengano interpretati attraverso le lenti di una società che non esiste più. La lettura e l’ermeneutica dei testi sacri vanno attualizzate, armonizzate con il comune sentire contemporaneo, calate nel “qui e ora”.
Le Saman di cui non conosciamo il nome meritano di vivere la vita che hanno scelto. Le Saman che fuggono da famiglie oppressive e matrimoni combinati incarnano l’essenza dell’Occidente: il nostro amore per la libertà di ogni essere umano. Non possiamo ricordarci di loro soltanto quando la cronaca nera ci restituisce l’ennesimo episodio di cruda realtà. Chi predica la tolleranza verso le “culture diverse”, verso le convenzioni e le tradizioni delle “culture altre”, si trasforma in un fiancheggiatore degli integralisti, dei padri padroni, dei mullah fanatizzanti. La paura non può anestetizzare le nostre coscienze. La paura non può cancellare la memoria delle nostre radici e della civiltà cristiana, la nostra. Le radici, da sole, non bastano, ma senza radici è impossibile stare in piedi. Chiamateci pure “razzisti”, “islamofobi”, “guerrafondai”, “occidentalisti”, nulla cambierà la nostra convinzione: c’è una guerra in corso, una guerra dichiarata contro l’Occidente, contro ciò che siamo, i valori che incarniamo, la società che bene o male siamo riusciti a costruire e a migliorare nel corso dei secoli. Noi, questa guerra, siamo pronti a combatterla. Se sapremo difendere le donne musulmane, se sapremo offrire loro strumenti concreti di emancipazione e riscatto, se sapremo avverare la loro speranza di una vita libera da costrizioni e divieti, avremo anche difeso quello che noi siamo. Non il migliore dei mondi possibili ma il meno peggiore dei mondi reali. Se sapremo spezzare le catene che le tengono imprigionate, diventeremo più forti e sicuri di ciò che noi siamo. Riscopriremo l’orgoglio dell’Occidente, e avremo vinto.
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