Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 12/05/2022, a pag. 1, con il titolo "Bono e Victor Hugo", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.
Bernard-Henri Lévy
Bono ha lasciato l’underground da tanto tempo. Ed eccolo che ci ritorna, ma a Kiev, nella metropolitana, dove improvvisa un concerto a sorpresa conThe Edge. Pensiamo alla metropolitana di Londra nel 1940, nei giorni del grande bombardamento. Pensiamo che l’Ucraina aggredita, martoriata, saccheggiata è una terra dove ogni giorno è Sunday Bloody Sunday. E il fatto che un artista di questo calibro abbia scelto anche lui di andarci, per denunciare con grande passione l’unforgettable fireche Putin sta facendo piovere sulle città assediate, che ritrovi, nel farlo, l’energia, l’ispirazione e la grazia fraterna del suo leggendario Jah Love, è un barlume di luce nel sottosuolo, una fiamma nella notte ucraina e nello spirito di resistenza che, è opinione mondiale, può brillare ancora e più forte. Ben fatto, Bono. Grazie, amico. Come in Irlanda, come in Bosnia, come in tante guerre dimenticate in Africa dove eri solo di fronte al grande sonno del pianeta, eccoti di nuovo qui, con la tua cetra, tra donne e uomini che hanno solo il loro coraggio e le nostre armi. “Arma virumque cano” sono le prime parole del primo poema dell’Occidente romano. Echeggiate da quelle — “Je chante l’homme et ses armes” — del più grande poeta della Resistenza francese. Ora tocca a te.
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In un altro sottosuolo, a 800 chilometri di distanza, l’ultimo quadrato del battaglione Azov sta combattendo la sua estrema resistenza. E, durante una conferenza stampa dalle catacombe, in un video che i russi ancora una volta non sono riusciti a impedire, questi uomini, bombardati senza tregua, sepolti sotto la cenere e l’acciaio, dimenticati dal mondo, parlano della morte che sta arrivando, della rabbia che sale e del significato del loro sacrificio. Pensiamo a una Massada al contrario, non più a 100 metri d’altezza ma 40 metri sotto una terra disseminata di cadaveri e rovine. Alla battaglia delle Termopili, riportata da Erodoto, che vide 300 spartani tenere testa a un esercito di “schiavi persiani” ritardando la loro avanzata e preparando le vittorie di Salamina e Platea. E, quando si è francesi, non si può fare a meno di avere in mente il famoso “la guardia muore ma non si arrende” di Waterloo ricordato da Victor Hugo, insieme al folgorante Merde, ilfuck dell’epoca, contro il fragore delle armi nemiche. Questi uomini sono stati insozzati. Sono oggetto di glosse pseudo-competenti sul peso-dell’estrema-destra-nella-resistenza-ucraina. Queste chiacchiere mi disgustano. Così come sono disgustato dai fiori e dalle corone di fiori che per caso si destinano a questi eroi la cui vita, da settimane, non è altro che un’interminabile insonnia e che non avranno una tomba. Ho incontrato Denis Prokopenko, tenentecolonnello del battaglione, durante un reportage nel Donbass, nel 2020. Mi aveva già raccontato la sua rabbia di fronte alla grande ignoranza dei frettolosi editorialisti: “Non è quello che accade a tutti i movimenti di resistenza? All’inizio, prendono quello che arriva; nell’urgenza dei primi giorni, accolgono chi vuole e sa combattere; poi arriva il momento in cui si può fare i difficili e separare la pula dal buon grano; Azov è lì; ha fatto il suo lavoro ed è lì, fiore all’occhiello dell’esercito ucraino”. Posso immaginare, oggi, la sua rabbia. Posso sentire la sua disperazione. Oh, bassezze nemiche...
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Ma la cosa più ripugnante è il modo in cui noi, in questi 8 e 9 maggio, abbiamo preso per oro colato il recupero spudorato dell’eredità della guerra antinazista da parte di Putin. Va da sé che il contributo dell’Armata Rossa fu decisivo. E se abbiamo un debito impagabile nei confronti dei GI e dei Tommies che sbarcarono sulle spiagge della Normandia, ne abbiamo un altro, non meno grande, con i milioni di morti in quella che i russi chiamano “la grande guerra patriottica”. Ma l’Armata Rossa era l’Urss. L’Urss era l’Ucraina tanto quanto la Russia. E, se guardiamo i sacrifici fatti dalla prima, non furono, a dir poco, inferiori a quelli della seconda. Ce lo ricordiamo che il 1° Fronte Ucraino, dove, come indica il suo nome, l’Ucraina era massicciamente rappresentata, fu in prima linea nei combattimenti del 1944-1945 in Polonia, Cecoslovacchia e Germania? Che guidò le operazioni in Slesia, poi l’assedio di Breslau, poi, in larga misura, la battaglia di Berlino? Possiamo dimenticare che tra i tre valorosi che salirono in cima al Reichstag per togliere la bandiera con la svastica c’era un ucraino? E possiamo ignorare che fu un carrista ucraino, il maggiore Anatoly Shapiro, ad avere il terrificante onore di essere il primo ad entrare ad Auschwitz e, se le parole hanno un senso, di liberare i sopravvissuti? I simboli, come le prove secondo Nietzsche, stancano la verità. Ma almeno dovrebbero invitare alla prudenza coloro che cadono nel tranello del grande spettacolo delle celebrazioni organizzate da un tiranno che vuole continuare la “denazificazione” dell’Ucraina di Zelensky fino alle latrine di Mariupol. Attualmente, è il suo ministro, non quello di Zelensky, che dice che Hitler aveva sangue ebreo. È il suo esercito, non quello di Zelensky, che sta bombardando il sito di Babi Yar. E l’unica denazificazione di cui c’è urgente bisogno è quella di questa Russia, malata di se stessa, che ha dimenticato tutto, non ha imparato niente — e che oggi è la capitale del crimine in Europa.
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