Riprendiamo dal FOGLIO di oggi 05/05/2022, a pag.1 con il titolo "Evviva chi non teme di parlare di Vittoria (maiuscola) contro i chierichetti alla Tarquinio" l'analisi di Giuliano Ferrara.
Giuliano Ferrara
Vladimir Putin
"Vogliamo che l’Ucraina vinca questa guerra” (ieri, Ursula von der Leyen a Bruxelles). Putin censura la parola guerra, ma pare si appresti a celebrare il 9 maggio la vittoria, anzi la Vittoria, e pare voglia farlo nel cimitero da lui approntato a Mariupol con i metodi di coloro che Stalin, Churchill e Roosevelt sconfissero nella primavera del 1945. Noi, in un mondo contemporaneo tanto futilmente competitivo, tendiamo a censurare la parola vittoria, minuscola ma risonante, quando è importante. Sia lodata la presidente della Commissione europea, che irrompe nel deserto linguistico, per colmarlo, accanto agli angloamericani. Ha capito che pace, negoziato, cessate il fuoco non sono fini in sé, ma obiettivi da perseguire con scrupolo non ipocrita in nome della giustizia, della libertà, dell’onore, della pietà e del coraggio di resistere alla forza brutale, e impedirne gli esiti con una vittoria.
Non c’entra la gloria, estranea entro certi limiti all’identità delle società liberaldemocratiche, non c’entrano l’Impero e l’omaggio all’Imperator. La vittoria non si definisce più come molti secoli fa, quando divampava la polemica tra il superfunzionario laico Simmaco e il vescovo di Milano Ambrogio sull’idea di distruggere l’Altare della Vittoria di Augusto che celebrava l’affermazione di Roma occidentale e latina sull’alleanza orientale tra Antonio e Cleopatra (battaglia di Azio, 31 avanti Cristo). Ambrogio era assolutista sulla verità unica del cristianesimo, ovvio, ed esercitava le prerogative vincenti della cancel culture di allora, e l’ebbe vinta, mentre Simmaco, relativista e paganeggiante, attraverso il simbolo della vittoria, e di quella Vittoria, voleva preservare quanto poi fu distrutto in oltraggio alla memoria, un Altare eretto in ringraziamento agli dèi e a celebrare l’unità e la dignità dello stato nella antica pietas. Sono grandi storie di una grande storia, a noi tocca un tono giustamente minore, anche se eccezionale di levatura e forza simbolica; basti pensare che oggi forse il dettaglio più memorabile di Lepanto (1571) sta nella mano invalida procuratasi nella battaglia navale di cui siamo figli dal creatore immortale del Chisciotte, Miguel de Cervantes, “el manco de Lepanto” che fece celebrare al suo eroe pazzo “la más alta ocasión”.
Tutte le discussioni legittime, improntate al realismo politico, e tutte le scempiaggini grottesche degli esibizionisti televisivi, tutto scompare di fronte al tema fino a ieri rimosso della vittoria in guerra. La guerra non è igienica come volevano i futuristi, le giornate che la preparano non hanno niente di radioso, delle sue atrocità e della sua stessa inanità cogliamo oggi, in una cultura che dopo i drammi del Novecento si è cercato di costruire nella pace e per la pace, l’aspetto disumano, spietato. Questo è evidentemente un progresso, un’apertura mentale che ha qualcosa di sfolgorante nei secoli; a condizione che i chierichetti dell’equidistanza e dell’equivoco, e cito solo tra di loro uno strano esemplare di cattolico tiepido come Marco Tarquinio, direttore di Avvenire montato sul carro degli sbrodolatori, posto che questi vitaioli della parola non dimentichino o oscurino il nocciolo etico che fa della vittoria minuscola il compenso da far pagare all’Ingiustizia maiuscola.
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