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Il rinnovo dell’accordo con l'Iran è una cattiva notizia per la democrazia
Analisi di Ben Cohen
(traduzione di Yehudit Weisz)
L'invasione in corso dell'Ucraina da parte della Russia è un salutare promemoria della assenza di limiti che i regimi autoritari devono affrontare quando decidono di entrare in guerra, nonché dell'incapacità delle nazioni democratiche di affrontare questi stessi regimi per impedire atrocità di massa. Mentre le forze armate ucraine hanno ottenuto alcune importanti vittorie intorno a Kiev ed a Chernihiv nel Centro e nel Nord del Paese, l'assalto del Cremlino continua implacabile nel Sud e nell'Est, provocando nuove ondate di rifugiati con le più recenti testimonianze di crimini di guerra russi e di crimini contro umanità. All'interno di questa dinamica mortale, i Paesi occidentali, contro le aspettative di molti osservatori, hanno trovato una voce forte e una posizione chiara. In questo momento per la Germania e la Svezia, l'invasione russa ha messo a tacere le politiche estere pacifiste e antimilitariste. All'interno dell'Unione Europea, le dure sanzioni contro la Russia sono state accompagnate da un'impressionante determinazione da parte dei principali rappresentanti del blocco nel soffocare al massimo l'economia russa. Nel frattempo, gli Stati Uniti, da più di un decennio in forte declino come potenza globale, si sono ritrovati a difendere valori come la libertà e la tolleranza contro la censura russa e lo sciovinismo nazionalista. Questi ultimi sviluppi sono i benvenuti, anche se è triste notare che ci vuole sempre una crisi o un conflitto perché le nazioni occidentali riconoscano che vale la pena difendere i loro sistemi di governo. Indubbiamente, ora più che mai dopo l’orrore dell'11 settembre e le sue conseguenze, i cittadini dei Paesi liberaldemocratici si sono resi profondamente consapevoli di quanto la loro vita sarebbe in pericolo sotto un dittatore come Vladimir Putin. Eppure la risposta occidentale all'invasione dell'Ucraina da parte di Putin non equivale a un reset della politica estera. In particolare a Washington, DC, permane un profondo timore di cadere in “una mentalità caratterizzata da una preferenza per l'azione militare rispetto alla diplomazia; una mentalità che privilegia l'azione unilaterale degli Stati Uniti rispetto al faticoso lavoro di costruzione del consenso internazionale; una mentalità che esagerava le minacce al di là di ciò che sosteneva l'intelligence” come aveva affermato l'ex Presidente Barack Obama quando valutò la politica estera del suo predecessore durante l'annuncio dell'accordo nucleare con l'Iran nell'agosto del 2015. Lo sforzo per rilanciare l'accordo con l'Iran durante i negoziati a Vienna che si trascinano da più di un anno evidenzia un minor consenso internazionale e più di un frustrante stallo. Eppure i diplomatici statunitensi continuano a insistere sul fatto che questo Paese e il mondo, saranno resi più sicuri se rientriamo nell'accordo abbandonato con grande clamore dall'amministrazione dell'ex Presidente Donald Trump. Le insidie del Piano d’Azione Globale Congiunto (JCPOA), il nome tecnico dell'accordo concordato nel 2015 tra il regime iraniano da un lato e Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Unione Europea, oltre alla Germania dall'altro, furono messe a nudo già in quel momento. L'accordo riproposto conterrebbe ancora una fatale “clausola di decadenza”, il che significa che le restrizioni allo sviluppo nucleare iraniano decadranno a cavallo del prossimo decennio. Fornirebbe inoltre all'Iran un sollievo immediato dalle sanzioni, nonostante il regime continui ad assaporare il suo ruolo destabilizzante in Medio Oriente. Per quanto riguarda il controllo internazionale, l'accordo originale non prevedeva ispezioni “in qualsiasi momento, ovunque” delle centrali nucleari iraniane da parte degli ispettori dell’AIEA – l’unico accordo di controllo che conviene avere – e neppure alcun rinnovo dell’accordo. Soprattutto nell'ultimo mese, i negoziati di Vienna sono degenerati in una farsa messa in secondo piano dalle atrocità russe in Ucraina. Visto che la Russia è una delle parti negoziali – e poiché se si vuole creare un “consenso internazionale” sull'Iran, non si può lasciare fuori Mosca – si può capire perché i negoziatori del Presidente russo Vladimir Putin in questo momento vorrebbero svolgere un ruolo distruttivo. L'inviato russo a Vienna, Mikhail Ulyanov, all'inizio di marzo ha debitamente affermato che il consenso di Mosca su qualsiasi rinnovo dell’accordo dipendeva dall’esenzione delle sanzioni punitive imposte per l'invasione dell'Ucraina, riguardo le ampie relazioni economiche e commerciali della Russia con l'Iran. Giravano voci sul fatto che gli iraniani fossero tutt'altro che soddisfatti di questa richiesta, ma Teheran non avrebbe mai rimproverato pubblicamente il suo alleato russo, dato che quel tipo di trattamento è riservato agli Stati Uniti. La scorsa settimana in un discorso ai funzionari del governo, il “leader supremo” del regime, l'ayatollah Ali Khamenei, non ha detto nulla sulla Russia o sull'Ucraina. Tuttavia, ha affermato che i colloqui a Vienna “stavano andando bene”, non perché un accordo sia imminente, ma perché la delegazione iraniana aveva resistito alle pressioni irragionevoli degli Stati Uniti affinché accettasse un accordo sfavorevole. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, l'amministrazione del Presidente Joe Biden ha recentemente cercato di smorzare le aspettative di un accordo. “Non sono eccessivamente ottimista di fronte alla prospettiva di portare effettivamente a conclusione un accordo, nonostante tutti gli sforzi che abbiamo fatto e nonostante il fatto che credo che la nostra sicurezza starebbe meglio,” ha detto il Segretario di Stato americano Antony Blinken davanti ai microfoni della MSNBC all'inizio di aprile. Alla domanda se considerasse corretta la definizione del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) iraniane quale organizzazione terroristica straniera, Blinken ha detto di sì, ma non si volle lasciar coinvolgere nella discussione se gli Stati Uniti avrebbero abbandonato questa definizione, il che avrebbe significato accettare una richiesta chiave degli iraniani. Secondo quanto riferito, Biden è contrario a tale misura, ma potrebbe ancora dover affrontare appelli dei suoi subordinati a fare retromarcia se ci fosse un accordo imminente. Quei sapientoni di opinionisti che cercano di vendere un rinnovato accordo con l'Iran, sottolineano che la definizione dell'IRGC era in gran parte simbolica e che il simbolismo non dovrebbe mai prevalere sul pragmatismo. Ma le politiche che hanno un impatto nel mondo reale non possono essere liquidate come meramente simboliche; la rimozione della definizione di terrorista sarebbe interpretata come una vittoria politica e strategica da parte dell'IRGC, senza fornire all'America e ai suoi alleati una leva per contrastare la sua interferenza in Libano, Siria, Iraq, Yemen e in altri Paesi della regione. In pratica, porrebbe un sigillo di approvazione all'influenza dell'Iran in Medio Oriente proprio nel momento in cui stiamo conoscendo ancora una volta la devastazione che possono provocare regimi canaglia e antidemocratici. Un rinnovato accordo con l'Iran rappresenterebbe una grave battuta d'arresto non solo per la sicurezza del Medio Oriente, ma anche per la ritrovata assertività dei Paesi occidentali di fronte all'aggressione russa nell'Europa orientale. È ora di riportare a casa i negoziatori di Vienna.
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate |
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