Riprendiamo dal FOGLIO di ieri, 09/04/2022, a pag. 6, l'analisi di Siegmund Ginzberg dal titolo 'Le trappole dell’orrore'.
Siegmund Ginzberg
Hitler e Putin in un fotomontaggio
Il giorno prima che le truppe e i carri armati iniziassero l’invasione, fu messa in atto un’operazione militare speciale, studiata e preparata nei minimi dettagli. I militari del paese invasore, indossate uniformi dell’esercito del paese invaso, occuparono una stazione radio. Trasmisero proclami che invitavano a uccidere, anzi a sterminare tutti quelli che erano della stesa etnia e parlavano la lingua del paese invasore. Poi si ritirarono, lasciandosi dietro numerosi cadaveri con indosso l’uniforme degli attaccanti. Qualche giorno dopo l’invasione, ci fu, a mezza strada fra il confine e la capitale del paese attaccato, presso una cittadina di etnia mista, un’imboscata. Non a danno degli invasori, ma a danno dell’esercito in ritirata del paese invaso. Ci fu una rappresaglia. Furono fucilati dai polacchi in ritirata molti appartenenti alle milizie che fiancheggiavano gli invasori. E furono uccisi anche un numero assai maggiore di civili, compresi vecchi, donne e bambini, che non avevano altra colpa che essere della stessa “razza” degli invasori. Molti furono brutalmente linciati da una folla inferocita che li accusava di essere la “Quinta colonna” del nemico. Arrivati gli invasori tedeschi, procedettero a massacri decuplicati, centuplicati, rispetto a quelli di cui era stata vittima la loro gente. In un episodio e nell’altro, furono fotografati i cadaveri. Evidenziando le ferite terribili e le mutilazioni che gli erano state inferte, con armi da fuoco ma anche baionette, e altre armi da taglio. Le foto furono diffuse da tutti giornali e le riviste illustrate del paese occupante, per giustificare l’invasione e la guerra agli occhi della propria opinione pubblica e del resto del mondo. Per mostrare la ferocia, la perfidia e la crudeltà dei nemici. E soprattutto per giustificare la propria. Poi avrebbero continuato per settimane, per mesi, per anni, a scavare fosse comuni, riesumare e fotografare cadaveri scomposti, corpi legati e torturati, donne incinte sviscerate, bambini passati a filo di baionetta. La documentazione ossessiva delle atrocità altrui gli serviva a coprire le proprie atrocità. Anzi a esaltarle come giuste, sacrosante, meritate dalle vittime. Gli serviva a giustificare l’invasione. Ma soprattutto a costruire un consenso interno. In questa guerra a colpi di atrocità, arrivarono non solo a commetterne di molto, ma proprio molto, incomparabilmente peggiori di quelle che attribuivano ai nemici, ma a vantarsene. Di fronte a quel martellamento di propaganda, i dubbiosi vennero messi a tacere. Anzi, la loro opinione pubblica, il loro “popolo”, li incitava, anzi li implorava di fare anche peggio. Erano riusciti a creare quello che alcuni studiosi dei nostri tempi hanno definito “panico morale”.
Un terrore di massa del nemico, una rivulsione di massa, una reazione emotiva, viscerale, alle atrocità altrui. In pratica un invito al massacro. Il primo episodio che abbiamo richiamato avvenne il 31 agosto 1939, giusto il giorno prima che le truppe naziste invadessero la Polonia e “liberassero” Danzica. La stazione radio attaccata era quella di Gleiwitz, nell’Alta Slesia (oggigiorno Gliwice, in Polonia). Gli attaccanti erano SS, ma in uniforme polacca. Un’operazione che oggi si direbbe di false flag, bandiera contraffatta. Adempita la missione, diffuso nell’etere un proclama in cui si invitavano i patrioti polacchi a invadere la Germania e ammazzare tutti i tedeschi, a cominciare da quelli che vivevano in mezzo ai polacchi, si erano ritirati lasciando sul campo diverse decine di cadaveri, sia in uniforme tedesca che in uniforme polacca. L’ufficiale delle SS che comandava l’operazione, l’Hauptsturmführer Alfred Naujoncks, avrebbe testimoniato, anni dopo, al processo di Norimberga, che gli ordini venivano direttamente dal capo delle SS Himmler e dal capo della Gestapo Heydrich: “Fu Heydrich a dirmi che le prove che ci saremmo lasciati dietro servivano per la stampa estera e per la nostra propaganda in Germania”. Gli erano stati forniti: 150 uniformi polacche; un annunciatore con ineccepibile pronuncia polacca; e un certo numero di prigionieri prelevati dai campi di concentramento, da narcotizzare, uccidere, e lasciare sul posto come prova che l’attacco era stato perpetrato da militari polacchi. Il nome in codice dell’operazione era: Conserve in scatola. Il giorno dopo Hitler denunciò al Reichstag la combutta dell’occidente con i polacchi. “Non vedo più alcuna volontà da parte polacca di negoziare seriamente. Le proposte di mediazione sono fallite perché la loro risposta [dei polacchi] è stata l’annuncio improvviso della mobilitazione generale, cui hanno fatto seguito ulteriori atrocità. Ancora ieri notte […]. Di conseguenza ho deciso di parlare alla Polonia lo stesso linguaggio che loro usano verso di noi”. Subito dopo Hitler aveva rivolto un messaggio radio al “popolo tedesco”, in cui l’aggressore si travestiva da aggredito. Lamentò le “continue violazioni di frontiera”, denunciò l’“intollerabile terrore sanguinario” [non disse “genocidio”, il termine allora non era ancora in voga] ai danni dei Volksdeutsche, l’etnia tedesca in Polonia. Concluse che tante atrocità non gli lasciavano “altra scelta che usare la forza contro la forza”. Quella operazione diede inizio alla Seconda guerra mondiale. Era stata preparata, e fu proseguita, con una campagna di propaganda coi fiocchi. Giornali nazisti (no, i giornali tedeschi tout court, all’epoca non c’erano più media che si differenziassero dalla linea dettata dal capo della propaganda e ministro dell’informazione Goebbels), settimanali patinati, trasmissioni radio (c’era già la televisione, ma non arrivava nella case), cinegiornali, avevano preparato l’opinione pubblica a odiare i perpetratori di un “genocidio” contro il popolo tedesco. Cioè gli ebrei, in combutta, anzi identificati con i polacchi, con i bolscevichi e con la plutocrazia, con la grande finanza internazionale, i guerrafondai assetati di lucro, i banchieri di Parigi, Londra e New York (ebrei, ça va sans dire) che volevano soffocare la Germania e la sua economia, calunniavano il loro beneamato Führer. L’odio glie lo istillarono perfino coi libri per l’infanzia e i sussidiari per le elementari. Una fonte storica, copiosissima, che si tende a trascurare, sono le lettere che i soldati tedeschi scrivevano a casa. Grondano di orrore per la “bestialità” dei nemici. Quella degli ebrei e quella delle orde “asiatiche”, le belve siberiane dell’Armata rossa. E di orgoglio per la crudeltà con cui la Wehrmacht gli rendeva la pariglia. Cosa scrivono ai loro cari i perpetratori della carneficina di Bucha? Heimkehr (“Ritorno in Patria”) di Gustav Ucicky, è uno dei più perfidi e strappalacrime film dell’epoca. Ebbe un successo paragonabile a quello del Jud Süss di Veit Harlan, che aveva incitato l’intera nazione tedesca allo sterminio degli ebrei. Ottenne un successo strepitoso e fu premiato al Festival di Venezia. Narra di una famiglia di puri e onesti tedeschi che viene perseguitata in Polonia, i cui membri vengono uccisi, rinchiusi in un campo di sterminio, torturati, sottoposti a sevizie solo perché tedeschi. Finché arriva la Wehrmacht a liberarli e riportarli in patria. Con gli stessi identici metodi con cui ottant’anni dopo Putin avrebbe “liberato” i compatrioti del Donbas dal “genocidio” da parte degli ucraini. A rivederlo oggi (in Germania è, come altri film nazisti, proibito, ma si può vedere su YouTube) fa impressione come gli argomenti allora usati dalla propaganda nazista si possano sovrapporre, quasi come un ricalco, a quelli addotti da Putin per invadere l’Ucraina. E’ addirittura profetico sui metodi che i nazisti avrebbero usato durante la guerra a danno degli ebrei e degli altri loro nemici. Fai agli altri esattamente quello che tu dici gli altri stanno facendo a te, si potrebbe dire.
La campagna di Polonia proseguì con una catena di massacri e atrocità sistematicamente perpetrate, talvolta vantate come giusta, severa e inevitabile punizione di analoghe atrocità subite dalla propria gente, sistematicamente attribuite alla parte avversa, e altrettanto sistematicamente, ossessivamente, documentate. La documentazione, con immagini, fotografie, serviva a dimostrare la bestialità di coloro che andavano trattati come bestie, senza la minima pietà, degli Untermenschen, di quei “subumani” che erano, per definizione, i polacchi, i russi, gli slavi, gli zingari, e, naturalmente, più perfidi, falsi, crudeli, bestiali, subumani di tutti gli altri: gli ebrei. Il pubblico tedesco si beveva tutto. Le atrocità, e le bugie, ma anche l’insistenza ossessiva su queste atrocità servivano a scacciare i dubbi sulla bontà della guerra e della propria leadership, e consolidare il consenso al regime e al suo capo. E a infiammare gli odii verso gli altri. L’episodio che avrebbe dato avvio alla macabra competizione su chi aveva massacrato chi fu il “Blutsonntag”, la “Domenica di Sangue” di Bromberg (per i Polacchi Bydgoszcz), una cittadina multietnica sulla via per Varsavia. Il 3-4 settembre 1939, qualche giorno dopo l’inizio dell’invasione, le truppe polacche che si stavano ritirando furono attaccate da Selbschutz, miliziani tedeschi, armati e organizzati dai nazisti. I polacchi reagirono massacrando centinaia di civili di etnia tedesca. L’indagine condotta, parecchio dopo la fine della guerra, dall’Istituto polacco per la memoria nazionale, censisce 254 vittime di confessione luterana (presumibilmente tedeschi), 86 vittime cattoliche (presumibilmente polacchi), una ventina di soldati polacchi vittime dei miliziani tedeschi. Quando i tedeschi presero la città, riesumarono dalle fosse comuni i corpi dei loro connazionali, uccisero per rappresaglia 3.000 civili polacchi ed ebrei, incluso il sindaco e la sua famiglia. Le istruzioni di Goebbels alla stampa tedesca erano: “Dovete mostrare immagini e notizie della barbarie dei polacchi a Bromberg. L’espressione ‘Domenica di sangue’ deve entrare nei dizionari e fare il giro del mondo…”. La leggenda della Domenica di sangue di Bromberg divenne un vero e proprio genere. Gli sarebbe servito per fare della Polonia, accanto alla Bielorussia e all’Ucraina, il paese occupato con la più elevata percentuale di vittime civili in tutta l’Europa. Divenne una scusa per massacrare su scala industriale, per ridurre in schiavitù, deportare verso il lavoro forzato in Germania e verso i campi di concentramento e di sterminio milioni di ebrei e polacchi, e slavi, e russi. Ci sono moltissime immagini raccapriccianti: di cadaveri di civili per strada, nelle piazze e nei campi, di torturati, donne denudate, bambini massacrati, di macabre riesumazioni da fosse comuni. Venivano pubblicate, diffuse capillarmente dai quotidiani, dai settimanali con illustrazioni di alta qualità su carta patinata, dai giornali murali che venivano affissi in ogni angolo della Germania. C’erano, ad accompagnare le truppe naziste, unità specializzate nella propaganda, con fotografi e giornalisti in uniforme. Esattamente come poi, ad affiancare la Wehrmacht furono dispiegati gli Einsatzgruppen, reparti mobili specializzati nella caccia e nell’assassinio di ebrei, comunisti, funzionari “bolscevichi” e partigiani. Nei territori occupati era invece proibito ad ebrei e polacchi, sotto pena di morte, il possesso di apparecchi fotografici. Eppure c’era anche una copiosa documentazione fotografica clandestina. Coraggiosa come i video ripresi oggigiorno dai telefonini privati. Le immagini dell’orrore al servizio della propaganda martellavano il pubblico tedesco. C’era una strana predilezione per l’immagine più cruda, cruenta, macabra, raccapricciante. L’orrore evidentemente pagava per la propaganda nazista. Col disgusto, cresceva l’odio. La “credibilità” del fotogiornalismo di guerra tedesco sarebbe rimasta a lungo indiscussa. Persino dopo la fine della guerra. Le stesse foto che erano servite ai nazisti a “documentare” i crimini polacchi ricomparivano frequentemente, fino al 1989, nella Germania dell’Est per documentare i “crimini fascisti”. Si limitavano a cambiare e a riscrivere le didascalie. Un’immagine è un immagine. Non dovrebbe mentire. Eppure andò avanti a lungo il palleggio della responsabilità, e del primato dei massacri più efferati. La “competizione” sarebbe divenuta parossistica quando Hitler, rompendo il Patto di non aggressione che aveva firmato con Stalin, invase l’Unione sovietica e l’Armata russa dovette ritirarsi dalla parte di Polonia che aveva spartito con i tedeschi. Vennero fuori altre fosse comuni, altri orrori, e ciascuno attribuiva la responsabilità all’altro. I tedeschi che avanzavano in Russia avevano scoperto nella foresta di Katyn, presso Smolensk, fosse comuni con decine di strati, decine di migliaia di corpi di ufficiali polacchi. Avevano attribuito il massacro ai sovietici. Goebbels si rallegrò nel suo diario per il “colpo di fortuna”, che gli offriva un altro argomento contro la barbarie giudeo-bolscevica. Mosca negò con indignazione. Poi per molti decenni venne dato per scontato che erano stati i nazisti. Anche perché i resti erano crivellati di munizioni tedesche, sparate da armi tedesche. I boia si erano premuniti, spargendo falsi indizi. Solo nel 1989 ricercatori sovietici confermarono che il massacro era stato perpetrato dalla NKVD di Stalin, e Gorbaciov chiese ufficialmente scusa alla Polonia.
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