Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 04/04/2022, a pag.2, la cronaca di Santi Palacios dal titolo "Nell’inferno di Bucha: 'I miei passi tra i cadaveri con un foro nella nuca' ".
Bucha
La strada Yabulanka che accede alla cittadina è piena di cadaveri. Giacciono sui marciapiedi, in mezzo alla via, nei giardini delle villette, tra le macerie e tra i veicoli militari distrutti. L’inferno a Bucha inizia alle porte della città. Estraggo la macchina per scattare una foto, nell’inquadratura entrano quattro morti, ma sono molti di più e sono ovunque. Alcuni hanno le mani legate dietro la schiena. Altri hanno un foro netto in testa o nel petto. La maggior parte dei cadaveri sono intatti e non mutilati dalle esplosioni come si osserva su altri fronti del conflitto. L’impressione chiara è che la loro morte sia il risultato di una esecuzione sommaria. Per arrivare a Bucha bisogna girare intorno a Irpin. Ci arriviamo dopo vari tentativi e in particolare dopo aver visto le prime immagini che circolavano in rete della situazione lasciata dalla ritirata russa. Fino ad ora ci siamo concentrati a documentare la ritirata delle truppe con le immagini dei carri armati abbandonati nei pressi di Stoyanka. Guidiamo verso nord da Dimitrivka, circa dieci chilometri dopo Dmytrivka si incontra un bivio e svoltando a destra verso est si accede direttamente al centro della cittadina attraverso Yablunksa Str.
Lo spettacolo all’arrivo è un teatro di macchine distrutte e furgoncini abbandonati. Il cielo è grigio e nevica. I veicoli militari ucraini vanno e vengono in continuazione. Ci imbattiamo in più persone: alcuni tagliano la legna, altri abbozzano tentativi di riparare le proprie case, altri ancora si raccolgono in capannelli come se aspettassero non so che cosa. Si percepisce una sensazione confusa di stare in un territorio liberato. Le persone che hanno vissuto durante l’occupazione per settimane assicurano di aver visto l’inferno. I combattimenti, raccontano, sono stati incessanti dall’inizio dell’invasione. Nessuno sa dire con sicurezza da quanto tempo i corpi privi di vita giacciano per strada, anche se i militari che incontriamo indicano il 26 di marzo come data delle esecuzioni. Sappiamo che il sindaco di Bucha ha denunciato il ritrovamento di fosse comuni e che le Nazioni Unite parlano di più di 400 vittime. È una normalità impregnata di morte quella in cui si risveglia la città alla fine dell’occupazione. I cittadini accolgono gli stranieri salutando. Non appena scendo dalla macchina vengo invitato da un uomo a entrare nel suo cortile, mi mostra una sepoltura improvvisata e una croce bianca. Dalle dimensioni si capisce che vi è sepolto un bambino. I vicini ci conducono alla casa successiva, spiegano che i soldati russi hanno vissuto in questa abitazione, sulla parete una scritta in rosso: “Questo vi succede per cercare di entrare nella Nato”. Ovunque per la strada ci sono macchie di sangue. Si nota che tutto è molto recente. Ogni cento metri c’è motivo di fermarsi: gente che si raccoglie in gruppi, vicini che provano a riparare veicoli. Ci avviciniamo a un gruppo di signore che si sono fermate di fronte a un condominio di diversi piani. Ci segnalano che nel cortile ci sono dei morti. Entrando vediamo otto cadaveri per terra tra la sporcizia. Sono tutti uomini. Di almeno uno di loro posso dire con certezza che aveva le mani legate dietro la schiena. Le signore ci spiegano che gli uomini erano civili della città, portavano una banda bianca al braccio e montavano guardie fuori dall’edificio, per questa ragione, stando al loro racconto, sono stati giustiziati dai soldati russi. La situazione è già surreale ma superato questo edificio peggiora: i cadaveri giacciono direttamente per strada, sui marciapiedi, le poche persone che si aggirano non ci fanno nemmeno più caso. C’è un auto colpita e l’autista accasciato a terra ucciso da un colpo netto. Dieci metri più avanti un altro cadavere di un uomo, cinque metri oltre quello di una donna, poco più avanti un cancello distrutto e nel giardino un altro corpo, nella casa di fronte altri due cadaveri.
Conto circa una ventina di cadaveri solo per strada, ma ce ne sono di più e sono ovunque. Per la maggior parte, sono persone morte uccise da un colpo netto. Solo in alcuni casi sono vittime di artiglieria. Poco oltre, girando a sinistra in una delle piccole strade che si immettono su Yabulanka si incontrano i resti di otto carri armati russi. I vicini tutt’intorno ripetono che è stato un inferno, che i bombardamenti erano incessanti. Si incontrano tra i sopravvissuti molti anziani, non se ne sono andati perché non sapevano come né dove. Nel nord della cittadina, nei pressi della ferrovia ieri mattina un gruppo di persone ci ha mostrato un gruppo di cinque cadaveri bruciati, secondo i vicini si tratta di soldati russi. Difficile confermare le circostanze ma gli elmetti giacciono nelle vicinanze e resti delle divise sono presenti sulla scena. Salendo per Vokalzna ieri mattina, la strada era totalmente deserta. All’altezza del centro commerciale ci siamo imbattuti in furgoni di volontari scortati da truppe che distribuiscono aiuti ai cittadini: provviste di ogni tipo, cibo in scatola, riso, dolci. Tutt’intorno persone di ogni età, molti anziani, ma anche bambini, padri con figli adolescenti, madri. La vita riemerge a fatica. Santi Palacios, fotoreporter spagnolo, collabora con numerosi media internazionali tra i quali New York Times, Associated Press, Cnn e Sunday Times. Per il suo lavoro è stato insignito di numerosi premi, tra cui il World Press Photo.
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