Riprendiamo dall'OPINIONE con il titolo "'Jewish Lives Matter': libro denuncia sulla cancel culture anti-israeliana" la recensione di Dimitri Buffa.
Dimitri Buffa
La copertina (Giuntina ed.)
“Andrebbe aggiornato ogni giorno”. Lo dice, con amara ironia, nei convegni di presentazione del proprio libro la stessa autrice. Perché ogni giorno nel mondo, in Europa o all’Onu, un germe di pregiudizio antisemita e anti-israeliano – che poi è la stessa cosa, notoriamente – viene piantato. Per fare crescere l’odio. E magari per preparare l’opinione pubblica a un mondo “senza Israele”. Stiamo parlando di “Jewish lives matter” di Fiamma Nirenstein. Un volume e una giornalista che rappresentano una sfida al sordo conformismo che usa la causa palestinese per mascherare l’odio anti-ebraico. Latente e palese. Movimenti come Black lives matter, femministi o di liberazione sessuale Lgbtq.
Fiamma Nirenstein
O persino gli ecologisti – tipo Greta Thunberg e i gretini – che volentieri confondono i rispettivi scopi con la variante anti-israeliana. Una specie di fiore all’occhiello che fa sempre “fino”, a destra come a sinistra. E che le leggende e le fake news nate attorno alla pandemia e ai No vax, persino attorno a Volodymyr Zelensky e alla guerra di invasione putiniana dell’Ucraina, hanno ulteriormente incrementato. Se in un salotto – di basso o di alto livello e persino tra intellettuali – uno osa difendere Israele e prendere le sue ragioni contro il terrorismo islamico, dopo pochi minuti si sente calare quel gelo “politically correct”. E affiorano subito quegli stereotipi disonesti intellettualmente di cui la Nirenstein fa decine di esempi nel libro. E tanti altri se ne potrebbero fare. Tanto da trasformare la sua denuncia in un inevitabile work in progress se non in una storia infinita. L’ultima riprova viene da Amnesty International, che in piena guerra di invasione russa contro l’Ucraina non trova niente di meglio da fare che prendersela con l’ebraicità dello Stato di Israele. Facendo intendere che in questa modalità non avrebbe neppure il diritto di esistere. L’Organizzazione internazionale, quindi, non solo si dichiara contraria alle politiche del governo di Gerusalemme, ma si oppone proprio all’idea stessa dell’esistenza di Israele come “Stato per il popolo ebraico”. Più esattamente, il direttore di Amnesty Usa, Paul O’Brien, nel corso di un pranzo con il Woman’s national democratic club a Washington, ha affermato letteralmente: “Siamo contrari all’idea – e questa, penso, sia una parte essenziale del dibattito – che Israele dovrebbe essere preservato come Stato per il popolo ebraico”. Un coming out senza precedenti. E che sputtana chi, con troppa fretta, aveva preso per oro colato il rapporto dello scorso febbraio di Amnesty International, in cui era scritto che in Israele ci sarebbe un sistema di “apartheid”. All’epoca “Amnesty amnesy” aveva messo nero su bianco questo concetto, ossia “un sistema crudele di dominio e di crimini contro l’umanità”... “segregazione”... “repressione brutale”... “dominazione”... “spossessamento ed esclusione”... “oppressione prolungata di milioni di persone”. Ecco. E oggi, con buona pace degli ucraini, il bersaglio di questa strana organizzazione che difende a modo suo i diritti umani è di nuovo Israele. Dimenticando che nello Stato ebraico gli arabi hanno persino un membro nella Corte Suprema. Anche alla luce di queste cose, il libro di Fiamma Nirenstein, baluardo contro la cosiddetta “cancel culture”, meriterebbe di diventare un testo di storia nei licei.
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