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La Repubblica Rassegna Stampa
02.04.2022 Perché l’Ucraina deve vincere
Analisi di Bernard-Henri Lévy

Testata: La Repubblica
Data: 02 aprile 2022
Pagina: 1
Autore: Bernard-Henri Lévy
Titolo: «Perché l’Ucraina deve vincere»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 02/04/2022, a pag. 1, con il titolo "Perché l’Ucraina deve vincere", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.

A destra: Volodymyr Zelensky

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Bernard-Henri Lévy

Non bisogna mettere a confronto ciò che è inconfrontabile. E io odio visceralmente il modo in cui il Cremlino parla di nazificazione dell’Ucraina e come sta strumentalizzando la Shoah nel tentativo di trascinarmi dentro al suo ingranaggio. Ci sono le lezioni della Storia, però. Una di queste è che nel 1942, nel 1943 o nel 1944 a nessun democratico sarebbe saltato in mente di cercare «una via d’uscita» per Mussolini o Hitler, di «salvare» loro «la faccia», di negoziare con i loro regimi assassini delle «soluzioni accettabili». Nelle circostanze odierne, nonostante Putin non sia Hitler, nulla giustifica la sua omicida invasione dell’Ucraina. Nessuno dei pretesti da lui addotti come preludio a questa scriteriata offensiva ha il benché minimo fondamento, né morale, né in ambito del diritto internazionale e nemmeno in nome degli interessi del popolo russo. Osservo, peraltro, come il suo esercito si stia afflosciando: vedo come la demoralizzazione dei soldati, incancrenita dalla corruzione, o, addirittura, la diserzione di alcuni ufficiali, siano segnali di sbandamento; noto che gli ucraini, al contrario, hanno dato prova di saper resistere, di saper contrattaccare e persino di avere a portata di mano la vittoria, con un incremento minimo degli aiuti militari da Parigi, Varsavia o Washington; a questo punto tiro le somme e penso che le donne e gli uomini liberi di tutto il mondo non abbiano motivo di fare alcuna concessione alla Russia, anzi, che dovrebbero ispirarsi a un unico principio, a una sola idea: la ritirata di Putin, il ritorno delle sue truppe dentro i confini precedenti al funesto 24 febbraio e, di conseguenza, la vittoria dell’Ucraina. Di certo si potrebbe decidere anche in altro modo: il presidente Zelensky potrebbe ritenere, per ragioni che riguardano soltanto lui, che per far cessare la carneficina e salvare quel che resta delle città fosse opportuno raggiungere un’intesa; in quel caso non dovremmo mostrarci più realisti del re. Il cielo dei princìpi, ricordiamolo, non è quello della politica reale e lo è ancor meno al cospetto di un irresponsabile che gioca col fuoco della minaccia nucleare. Prima o poi, però, arriverà comunque il momento di parlarsi, di sedersi intorno a un tavolo; quel giorno saremo debitori ai dirigenti politici dal sangue freddo che, in Europa e in particolare in Francia, avranno saputo lasciare sempre socchiusa la porta dell’interlocuzione diplomatica. Quel momento tuttavia non è ancora arrivato. Per ora non vedo perché non dovremmo mantenere questa semplice posizione: ritenete giusta la causa ucraina? Pensate che l’Ucraina, difendendo la propria integrità territoriale, difenda anche i valori e le frontiere dell’Europa? Vi siete resi conto che Putin, infrangendo il tabù del ricorso all’arma più potente, rappresenta una minaccia esistenziale non solo per Odessa e Kiev, ma per il mondo intero? Bene. Se è così, dovreste avere un unico desiderio: non permettere all’aggressore di salvare la faccia; non dargli respiro, perché ne approfitterebbe per riarmarsi, ristabilire la propria autori tà e pianificare la prossima avventura militare; aiutare invece gli ucraini ad avere la meglio e, facendo ciò, indebolire, ridimensionare o, meglio ancora, mettere l’accento sull’illegittimità del dittatore che li massacra. È quel che ha fatto Joe Biden a Varsavia, definendo Putin «un macellaio». Confesso di non capire la levata di scudi, sostenuta da vecchi riflessi automatici di anti-americanismo, con cui è stata accolta questa dichiarazione. Il presidente degli Stati Uniti ha detto pane al pane. Ha detto che il re russo è nudo, che l’ora del declino era scoccata e che i bambini ucraini che stava abbracciando non dovevano avere paura. Parole coniate con buonsenso, ma anche con quella virtù che gli antichi greci chiamavano parresìa , cioè il coraggio della verità. Erano soltanto parole? Sì, è vero. Ma le parole, quando vengono pronunciate dal rappresentante politico o morale di una grandissima potenza, pesano più delle parole tout court , come nel caso di Roosevelt, nel 1940, quando denunciò la «pugnalata» inferta da Mussolini alla Francia. O di Churchill, nel 1946, quando annunciò che una cortina di ferro era stata calata sull’Europa e che ritenerla scandalosa costituiva il midollo della pace. O di Truman quando, il 12 marzo del 1947, presentò al Congresso la sua dottrina sul contenimento. O di Kennedy e del suo « Ich bin ein Berliner! », sono anch’io un cittadino di Berlino. Ebbene, le parole di Biden chiedono di essere confermate. Bisognerà verificare quanto sia davvero determinato a difendere ogni centimetro del territorio diventato santuario dell’Alleanza Atlantica, ma per un fautore della giustizia e del diritto sono parole che s’innestano nella stessa linea degli illustri precedenti qui ricordati. Hanno il suono — per chi, come me, è appena rientrato dall’Ucraina e, immagino, per gli ucraini stessi — di un amorevole richiamo a quei princìpi senza i quali non raggiungeremo una pace giusta. Princìpi che, fissando le regole del gioco, ricordano, come corollario, che la Storia non si scrive né si conclude mai del tutto; che forse abbiamo seppellito troppo in fretta la Cité Lumineuse, in cima alla collina di Bordeaux (emblematico edificio costruito dopo la Seconda guerra mondiale per ospitare soprattutto immigrati ed esiliati. Fu abbattuto nel 1996, N.d.T. ); e che dopo tanti arretramenti, tante false linee rosse e tanti piccoli accomodamenti nei riguardi di “cinque re” ebbri di rivalsa e di odio, l’America ora sta tornando. È l’unica buona notizia di questa sanguinosa settimana.
Traduzione di Monica Rita Bedana

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