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Tempi Rassegna Stampa
09.01.2003 Una data per la guerra ?
L'inviato di Tempi in Israele racconta

Testata: Tempi
Data: 09 gennaio 2003
Pagina: 1
Autore: Roberto Persico
Titolo: «Una data per la guerra ?»


Kamikaze scatenati in vista delle elezioni in Israele. L’obiettivo del terrore islamista? Scavare l’abisso tra i due popoli e trascinare Israele in un conflitto esteso da Gerusalemme
a Bagdad. Viaggio in Terra Santa alla vigilia di una catastrofe annunciata

La tregua di Natale è finita. Dopo quasi due mesi di relativa tranquillità (nell’ultima settimana, "solo" un vecchio ebreo da sempre nei territori ucciso "perché sapeva troppo" e l’irruzione in una casa ebraica di un terrorista a cui si è inceppato il fucile), l’attentato di domenica alla vecchia stazione degli autobus di Tel Aviv ha gettato di nuovo sopra Israele l’ombra del terrore.

In maschera antigas verso il plebiscito per Sharon
Ma anche se nelle settimane precedenti la situazione era apparentemente distesa, anche se ai check point i militari gettavano ai passaporti solo un’occhiata distratta, sotto la superficie la tensione era palpabile. Non c’è solo la paura del terrorismo, sorda, onnipresente, implacabile. Tutti sono in attesa della guerra. Non sarà prima del Natale ortodosso (il 7 gennaio), dicono, ma tutti sono sicuri che ci sarà. E appena George W. Bush lancerà i suoi missili sull’Irak tutti si aspettano un attacco (irakeno? palestinese? dei paesi arabi?) contro Israele. Forse è una psicosi, ma intanto i soldati stanno girando per le scuole a insegnare ai ragazzi a indossare le maschere antigas. La radio ha dato disposizione di tenere in casa riserve d'acqua per almeno tre giorni. E chi ha il rifugio antiatomico – sono in molti, specie nei quartieri alti – si sta dando da fare per attrezzarlo e rifornirlo. Alla radio i dibattiti più accesi riguardano l’efficienza delle maschere antigas (pare che non si adattino perfettamente al viso, basterebbe un movimento brusco per far filtrare il gas) e l’efficacia dei vaccini in caso di attacchi batteriologici (un’apposita commissione denuncia che non sarebbero stati testati a sufficienza).
In questo clima, le elezioni in programma per il 28 gennaio prossimo non scaldano gli animi più di tanto. Anche perché ci sono due certezze diffuse: vincerà Ariel Sharon, e non cambierà niente. Lo dicono i sondaggi, lo si respira nell'opinione della gente. Anche lo scandalo dei voti comprati alle primarie non sembra in grado di alterare seriamente gli equilibri. Farà perdere ai conservatori qualche consenso, ma niente di più. I vecchi militanti di sinistra confermano sconsolati: «la paura è la sua grande alleata. Oggi in Israele risuona un’unica parola: "sicurezza". Molti che in passato stavano coi laburisti daranno il loro voto al Likud».

Laburisti e pacifisti verso la disfatta
Dietro la scontata riconferma del Primo ministro in realtà i giochi sono tutt’altro che fatti. A destra crescono i partitini ultranazionalisti, pronti a far leva sul risentimento antipalestinese. È il caso di Unione Nazionale, il gruppetto fondato dall’ex capo della segreteria di Nethanyahu, Liebermann, con lo slogan "Basta parole, è ora di decidere". «Decidere cosa?» domando «Di far fuori tutti gli Arabi» è la risposta. La sua pubblicità campeggia sugli autobus in caratteri cirillici: raccoglie consensi soprattutto fra i russi, l’ultima ondata di immigrati nel Paese, la più esposta alle conseguenze della recessione e la più sensibile ai richiami populisti: "La colpa della vostra disoccupazione è tutta degli Arabi".
Al centro invece si aspetta una significativa affermazione di Shinui, "Cambiamento". È il partito della borghesia laica: medici, ingegneri, avvocati. Anche loro incominciano a patire gli effetti della crisi economica che attanaglia Israele (gli scambi commerciali ridotti del 30%, il turismo del 90, un israeliano su tre sotto la soglia della povertà). Ma considerano la questione palestinese irrisolvibile, e guardano altrove: ai privilegi degli ebrei osservanti. Il loro programma prevede l’abolizione dei privilegi tradizionali degli studenti delle scuole religiose (Yeshiva): i sussidi per le spese scolastiche e l’esonero dal servizio di leva.

Un problema senza soluzione?
Se le urne confermeranno le previsioni dei sondaggi, formare la nuova coalizione di governo non sarà facile. Per tener fuori l’estrema destra, Sharon potrebbe essere costretto a imbarcare di nuovo i laburisti, in una riedizione del "compromesso storico" all’israeliana che era anche la formula del vecchio governo (è stata l’uscita dei laburisti a portare a queste elezioni anticipate). Ma potrebbe non bastare, e potrebbero rivelarsi indispensabili anche i voti di Shinui. Sharon si troverebbe così costretto a estromettere dal governo i partiti religiosi, per la prima volta nella storia del Paese (dal 1948 a oggi ne hanno sempre fatto parte, qualunque fosse il colore).
All’uomo della strada, in realtà, dei giochi elettorali importa poco. Pensano ad altro: «Sono un cristiano palestinese» sussurra uno dei nostri autisti «anche noi abbiamo diritto a un nostro Stato». «Quando i palestinesi avranno il loro Stato» ci dice un amico israeliano, cristiano ortodosso, indicando le colline della Samaria «metteranno là sopra i loro cannoni e ci spareranno addosso». Si sente ripetere sempre più spesso una vecchia espressione di Ben Gurion: "Tutti sanno che esiste il problema dei rapporti fra Arabi ed Ebrei. Pochi sanno che questo problema non ha soluzione".

Da Beit Shaur a Sasa, scampoli di resistenza umana
Dall’altra parte del muro le parole che circolano sono le stesse: paura, disoccupazione, scetticismo. Solo, la povertà è più evidentemente drammatica. Il giorno di Capodanno, i primi a farci gli auguri sono gli orfanelli, meravigliosi e dolcissimi, di Samar Sahhar, che i lettori di Tempi ben conoscono. È contenta che siamo andati a trovarla, anche i volontari che sostengono la sua opera da qualche tempo non si fanno vedere: «verremo, appena le acque si saranno un po’ calmate». Non vuole occuparsi di politica, dice; ma poi le scappa detto che «si stava meglio quando c’erano i soldati israeliani. Ora non c’è assistenza sanitaria, non c’è amministrazione, non c’è sicurezza, non c’è niente. Quando uno dei bimbi si è rotto un braccio ho dovuto scavalcare il muro e portarlo all’ospedale di Gerusalemme. Quando è scoppiato un incendio in cucina non sapevo a chi rivolgermi. Per fortuna qualcuno ha chiamato i soldati israeliani che sono venuti con i loro pompieri». «Il popolo palestinese e il popolo ebreo» prosegue «vogliono le stesse cose: vivere, lavorare in pace, crescere i figli senza timore. Sono i governi, sono le immagini della televisione che alimentano la paura, il terrore, i pregiudizi. Quando la gente si incontra, si conosce, scopre che si può andare d’accordo, che l’altro non è il mostro che si era immaginato». Ora sta cercando di impiantare un forno, per cuocere il pane per i suoi bimbi, guadagnare qualche soldo vendendolo e insegnare ai più grandicelli un mestiere. Ma soprattutto vuol cominciare a sfornare gli ogot shalom, i dolci della pace: prodotti palestinesi da vendere agli Ebrei.
Incontrarsi, conoscersi. Sono le stesse parole che ascoltiamo all’altro capo del Paese, kibbutz di Sasa, estremo nord di Israele. Le ripete quasi senza sosta un’altra amica di Tempi, Angelica Calò. L’ultima sua trovata è una compagnia teatrale, che vuole chiamare L’arcobaleno («che è bellissimo, proprio perché è composto di tanti colori diversi»), in cui insieme agli ebrei recitano due (per ora) palestinesi. L’altro giorno una ragazza del kibbutz è scesa dall’auto degli arabi. I suoi amici non credevano ai loro occhi: «come hai fatto a salire su quella macchina?» «Ma no, ragazzi, se li conoscete vedete che sono come noi». Forse, più che nelle alchimie elettorali, una speranza per la terra di Gesù sta nell’opera di gente come Angelica e Samar.


Roberto Persico





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