Mosca, 1839, Nicola I imperatore di tutte le Russie, nel libro Adelphi
Commento di Diego Gabutti
La copertina (Adelphi ed.)
Mosca, 1839. In un incontro vis-à-vis con Nicola I, Imperatore di tutte le Russie, il marchese Astolphe de Custine, autore di Lettere dalla Russia, Adelphi 2015, capisce l’essenziale, cioè che «l’imperatore è l’unico uomo dell’impero col quale si possa parlare senza temere i delatori». A colloquio con lo zar, De Custine smette d’un tratto di temere la rivoluzione in Europa. Quanto alla Russia autocratica, che fino a un attimo prima era ai suoi occhi un modello di società tradizionale al quale ispirarsi, perde di colpo tutto il suo appeal. Se «in Francia», scrive, «la tirannia rivoluzionaria è un male passeggero, in Russia la tirannia del dispotismo è una rivoluzione permanente». Di «rivoluzione permanente», prima e dopo gli zar, da Vladimir Il’ič Ul’janov in arte Lenin a Vladimir Putin, si sentirà parlare ancora. Come si sentirà ancora parlare di slavofili impenitenti (ieri i comunisti ortodossi, oggi le destre lepeniane) e di slavofili pentiti (i transfughi del Comintern e l’intellighenzia di sinistra che, piuttosto di finire al servizio dell’autocrazia stalinista, si schiera col servizio segreto americano, come si racconta in un grande libro di Frances S. Saunders, Gli intellettuali e la CIA).
In anticipo su tutti gli slavofili pentiti, de Custine è il primo a sentire odore di bruciato e a lanciare un grido d’allarme (lo stesso grido che risuonerà, un secolo dopo, nel Ritorno dall’URSS d’Andrè Gide, nello Stalin del marxista di sinistra Boris Souvarine e nell’intera opera di George Orwell). «Se mai il popolo russo riuscirà a mettere insieme una vera rivoluzione», scrive de Custine, «il massacro sarà regolare come le evoluzioni d’un reggimento». Un altro viaggiatore suo contemporaneo, il barone tedesco August von Haxthausen, studioso del mondo rurale, nonché amico in gioventù dei fratelli Grimm, perde invece la testa per la Russia e per le sue istituzioni contadine: le comuni, o «mir». Mentre i populisti russi, anni dopo, vedranno nel «mir» una scorciatoia per passare dalla società precapitalistica al socialismo senza tappe intermedie, von Haxthausen è dell’idea che «le comuni russe» rappresentino «un’unità organica e un compatto ordinamento sociale che non si trova da nessun’altra parte. Finché esistono le comuni», scrive nel suo Viaggio all’interno della Russia, «non può emergere il proletariato». E «niente proletariato, niente socialismo», si compiace il barone. Slavofili e antislavofili, come più tardi comunisti e anticomunisti, la vedono nello stesso modo almeno su un punto: l’eccezionalità della «questione russa», il carattere metafisico dei suoi enigmi sociali. Storico dell’amour fou per la Russia zarista, il polacco Andrzej Walicki racconta in un grande libro, Un’utopia conservatrice, Einaudi 1997, l’eterna favola della letteratura prozarista e antizarista nel XIX secolo. Ci sono cambiamenti improvvisi di fronte e conversioni altrettanto repentine. Tra gli antislavofili più accaniti si notano, in primissima fila, anche Marx ed Engels, le cui teorie saranno lo strumento involontario della diffusione dello slavofilia in tutto il mondo, fin quasi a divorarlo. «Bisogna ammettere», scrive de Custine, «che se il dispotismo rende infelici i popoli che opprime, è una benedizione per i viaggiatori, cui procura sempre nuove meraviglie».
Diego Gabutti