Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 29/03/2022, a pag. 18, l'intervista di Vincent Trémolet de Villers, Eugénie Bastié a Alain Finkielkraut dal titolo "Contro l’imperialismo russo rinasce il concetto di nazione".
Vincent Trémolet de Villers
Eugénie Bastié
Alain Finkielkraut
Professor Alain Finkielkraut, la guerra in Ucraina è un fatto imprevedibile che la maggior parte dei commentatori non aveva anticipato. Tra “ritorno della Storia” e “risveglio dell’Europa”, come si colloca lei, quanto a lettura di questo avvenimento? «È vero: nessuno si aspettava che l’autocrate del Cremlino lanciasse il suo esercito all’assalto dell’Ucraina e minacciasse un intervento nucleare contro tutti quelli che gli metteranno i bastoni tra le ruote. Ma Putin non procede per conto proprio. La sua voracità arriva da molto lontano. Si è creduto che con la caduta del Muro di Berlino il Vecchio Continente rinunciasse una volta per tutte all’impero. Ciò che più colpisce di questa guerra non è la follia di un uomo solo, estraniatosi dalla realtà, e non è nemmeno il ritorno della Storia: è la persistenza del destino russo. Zarismo, comunismo, putinismo: la continuità imperiale prevale su tutte le rotture. Alcuni spiriti fieri della loro imparzialità e del loro realismo sostengono che l’Occidente ha la sua parte di responsabilità nella situazione attuale. La Nato avrebbe provocato la Russia andandola a sfidare fino sotto le sue nuove frontiere. Questa tesi, però, non regge: i Paesi Baltici, la Polonia e tutti i Paesi dell’Europa centrale hanno scelto la protezione della Nato contro quello che conoscono: l’espansionismo russo. In una magnifica intervista con Philip Roth, pubblicata alla metà degli anni Ottanta, Milan Kundera affermava che “dopo l’invasione russa del 1968, ogni cecoslovacco ha dovuto fare i conti con l’idea che la sua nazione potesse essere spazzata via dall’Europa senza provocare più reazioni della scomparsa di 40 milioni di ucraini negli ultimi cinquant’anni nell’indifferenza generale”. È il rifiuto di una nuova cancellazione che i realisti considerano un’offesa fatta al “cancellatore”. La chiamano “umiliazione della Russia”».
Sua madre nacque a Lwow, oggi Lviv, Leopoli, un’antica città polacca diventata poi ucraina. A partire dalla sua storia familiare, quale opinione si è fatto del futuro nazionale dell’Ucraina? «Leopoli è una città che ha viaggiato molto nella storia. Situata alla periferia dell’impero austro-ungarico, la capitale della Galizia nel XIX secolo aveva il nome di Lemberg. Dopo la Prima guerra mondiale fu incorporata nella Polonia indipendente e divenne Lwow. Occupata dai sovietici nel 1945, oggi è ucraina e si chiama Lviv. Mia madre era nata e cresciuta a Lwow, e della sua giovinezza in quel gioiello architettonico ha custodito un ricordo… diciamo ambivalente. Come molti ebrei aschenaziti, sono stato allevato nella diffidenza nei confronti di polacchi e ucraini. “Sono peggio dei tedeschi!” dicevano di loro i miei genitori, come tutti i sopravvissuti che, in buona parte, si sono rifiutati di rimettere piede in Ucraina e in Polonia. Ho sempre desiderato obbedire loro, ma l’erede di una vittima manca di fedeltà nel momento in cui si considera egli stesso una vittima. Che fosse la Polonia di Solidarnosc o la Croazia assediata, ho sempre ritenuto doveroso trasgredire alla proibizione dei miei genitori. Ho protestato contro l’invasione e la distruzione di Vukovar quando la Serbia di Milosevic presentava quella città alla stregua di una roccaforte ustascia, vale a dire hitleriana. Putin ha voluto ripetere quella stessa operazione con Kiev e Mariupol. Ma ha fallito».
Putin afferma di voler “denazificare” l’Ucraina. L’Ucraina non ha voluto affrontare o analizzare sul serio il suo passato nazista, non è così? Oggi non si ritrova in una parte, certo minoritaria ma pur sempre presente, del nazionalismo ucraino? «Del passato e del presente dell’Ucraina non si deve trascurare niente: né Holodomor — la spaventosa carestia provocata da Stalin che fece milioni di morti — né il ruolo delle parti ucraine nella soluzione finale, né l’attuale condiscendenza verso alcuni personaggi del nazionalismo antisemita. In ogni caso, io penso che rispetto all’anti-modello russo il presidente Zelensky stia guidando il suo Paese sul cammino della complessità della memoria e della sincerità democratica».
Lei è molto affezionato all’autore sovietico Vasilij Grossman, nato in Ucraina. Come pensa che la sua opera possa gettare una luce chiarificatrice sul presente? «Vasilij Grossman è uno dei più grandi scrittori del XX secolo. Il suo testamento letterario, Tutto scorre , ci insegna più cose sul presente degli articoli d’opinione eruditi o indignati. A differenza dell’Occidente, scrive, per perseguire il progresso la Russia ha scelto di imboccare la strada della servitù. “L’ossessione rivoluzionaria di Lenin, la sua fede fanatica nella verità del marxismo, la sua intolleranza verso coloro che la pensavano diversamente da lui lo portarono a favorire quella Russia là, che egli detestava con tutte le forze della sua anima fanatica”. Putin e i suoi oligarchi non hanno bisogno del marxismo, ma neanche loro hanno preso le distanze da quella che Grossman definisce la maledizione della Russia: la connessione tra progresso e servitù della gleba».
Il sogno di un’Europa sovranazionale sembra riemergere grazie al riarmo dell’Europa alle prese con Putin. Ma la resistenza di Kiev non ci sta mostrando che le nazioni sono fondamentali? «Nel suo saggio La tragedia dell’Europa centrale, l’Occidente rapito Milan Kundera ricorda che nel 1956, “nel mese di settembre, pochi minuti prima che il suo ufficio fosse devastato dall’artiglieria, il direttore dell’agenzia di stampa ungherese spedì per telescrivente in tutto il mondo un messaggio disperato contro l’offensiva russa scatenata quel mattino contro Budapest”. Il testo si chiudeva con queste parole: “Moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”. L’Europa non è intesa come la casa di rilancio delle nazioni assassine; le nazioni vi sono difese perché prodotti della civiltà europea. La nazione è l’architettura, la poesia di alcuni luoghi, ciò di cui si prova la mancanza quando si è altrove, una lingua comune… tutte queste cose non sono la democrazia, ma quello che la rende possibile. Vi sono concetti e vi sono denominazioni. “Ucraina” è un nome proprio che la Russia vuole far sparire dalla faccia della Terra».
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