Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 25/03/2022, a pag. 18, con il titolo "Nel cuore di Odessa la perla ucraina che resiste allo zar", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.
Bernard-Henri Lévy
Odessa
Siamo entrati in Ucraina da Palanka, alla frontiera con la Moldavia. Alexandre Garachuk, un docente di civiltà francese, ci aspetta dall’altra parte, sotto la tenda bianca e blu da cui transita il flusso dei rifugiati. Con lo sguardo impertinente e i capelli bianchi spettinati, con la sua maniera di affermare, presentandosi, di non aver mai capito bene se fosse ucraino, polacco, lituano, ebreo, tedesco o francese, è l’emblema dello spirito di Odessa, quello che Puskin definiva come una felice mescolanza di cosmopolitismo, spirito libertario e ironia. Impieghiamo un’ora per superare la decina di checkpoint fatti di croci di ferro disposte a quinconce e mucchi di sacchi di sabbia sorretti da muri di cemento che filtrano tutti gli ingressi. E finalmente, assieme a Gilles Hertzog e Marc Roussel, i miei compagni di scorribande, sono nella terza città dell’Ucraina, la più letteraria, la più brillante, una città col fiato sospeso. Alloggeremo in una casa modesta, in riva al mare, non distante dal porto e dalle sue gru gigantesche. Sotto di noi, al termine di un sentiero che si snoda fra le acacie, la mezzaluna della spiaggia è tutta minata. Alla fonda di fronte a noi, visibile col binocolo e, quando l’aria è limpida, a occhio nudo, la flotta russa che serra la città in un blocco navale e che, quando Putin lo vorrà, la martellerà di bombe: quattordici navi, fra cui una corvetta missilistica di classe Buyan-M, due navi da assalto anfibio di classe Ropucha, qualche dragamine e l’ammiraglia, la Movska. Il nostro primo gesto: tornare, nel cuore della città vecchia, al teatro dell’Opera dove nel 2014, il primo anno della rivolta di Maidan, ho messo in scena la mia opera teatrale a favore dell’ingresso dell’Ucraina in Europa. Il teatro, ahimè, è chiuso. La Deribasivska, il viale pedonale che porta al teatro e che all’epoca pullulava di gente, è vuota. E tutte le strade vicine, di cui avevo molto amato le facciate scrostate color pastello e i portici neoclassici ombreggiati dai sicomori, sono piene di barricate, presidiate da volontari della difesa territoriale in uniforme.
Sono per la maggior parte giovani che prima d’ora non avevano mai imbracciato un’arma. Trasmettono un misto di risolutezza, di ansia e, quando controllano uno scrittore straniero privo di tesserino stampa, di entusiasmo incredulo. «Ci sono molti infiltrati», si scusa Volodymyr, un ex barista che parla inglese e che, contrariamente ai suoi compagni, accetta di farsi intervistare. Sono certo meno numerosi di un tempo. E, con gran sorpresa del Cremlino, sicuro che Odessa, russofona, avrebbe coronato il suo sogno imperiale, la guerra ha compattato la città come non mai. Ma ce ne sono ancora. Vogliono Putin. E contano sulle squadre di infiltrati che sono qui da mesi, hanno affittato appartamenti, trovato lavoro e si sono mescolati alla popolazione attendendo il segnale. La squadra di Volodymyr ne ha arrestati due questa mattina. La settimana scorsa ne hanno neutralizzati tre nel quartiere della stazione, dopo diverse ore di combattimenti per le strade. «State in guardia », mi dice. «Sono degli assassini. Potrebbero essere ovunque». Incontriamo Maksym Marchenko, governatore militare della città, non lontano dalla statua del duca di Richelieu, discendente del Richelieu di Luigi XIII e primo governatore, nel 1803, della città fondata dall’imperatrice rossa, Caterina II. Ho conosciuto Marchenko due anni fa nel Donbass, quando comandava la 28ma brigata meccanizzata. È originario di Sloviansk e ha l’aspetto di un centurione con la faccia da contadino, gli manca quell’aria anarchica, fra il bandito e il Robin Hood volontario che, come il Benja Krik di Isaac Babel, il “re di Odessa”, fa ormai parte della leggenda cittadina. Il presidente Zelensky l’ha scelto perché è un soldato capace, sul fronte del Donbass era uno di quei comandanti che non credevano alle favole di Putin sui separatisti “a rischio genocidio” che l’esercito russo doveva “soccorrere”. «Vede», mi dice quando arriviamo ai piedi della statua, «quei sacchi che i nostri ragazzi sono andati a riempire di sabbia e ciottoli in spiaggia?». In effetti, l’alta figura di bronzo che domina i 192 scalini della famosa scalinata Potemkin è sepolta da un cumulo di sacchi bianchi che le fanno quasi da armatura. «Ebbene», continua lui, «il governatore Marchenko veglia sul governatore Richelieu, che a sua volta veglia su Odessa. Vorrei che il vostro paese vegliasse assieme a noi e ci mandasse cannoni e soprattutto aerei, gli unici in grado di respingere l’attacco imminente che ci colpirà dal mare, dall’aria e da terra». E aggiunge, citando alla lettera il generale De Gaulle: «Non c’è forse un patto secolare fra Odessa e la Francia?». Ci dirigiamo verso Mykolaiv, la città martire situata centoventi chilometri più a est la cui accanita resistenza da tre settimane sbarra l’accesso via terra a Odessa. Superiamo una postazione fortificata che, con le sue numerose pattuglie, alcune delle quali incappucciate, sembra più una linea d’attacco che un checkpoint. Poi un’altra, lungo la strada litoranea, in mezzo alla pianura sassosa, dove vediamo dei lanciamissili con mirino telescopico del tipo Javelin o NLAW, alcuni portati a spalla, gli altri accatastati sotto tende color cachi tese fra blocchi di cemento. E poi una terza, ancora verso nord, improvvisata, dove dovremmo incontrare Vitaliy Kim, l’eroico governatore di Mykolaiv. Ma, ahimè, arriva una telefonata. I bombardamenti si stanno intensificando. Non può uscire dalla città. Né, a suo dire, possiamo raggiungerlo. Allora, in un edificio amministrativo abbandonato, organizziamo una conversazione a distanza di un’intensità sconvolgente. Vediamo Kim, con il piumino aperto sul giubbotto antiproiettile, il viso onesto di un amministratore civile costretto a fare la guerra senza amarla e, come sottofondo, il frastuono delle granate. «I russi indietreggiano», esordisce, «non hanno viveri né munizioni, le loro catene logistiche sono interrotte. Quindi, chiaramente, resta l’aviazione…». La linea è disturbata. S’interrompe. Lo richiamo. «Sì, hanno smesso di avanzare. E i nostri battaglioni passano al contrattacco. Il prezzo in termini di vite umane per noi sarà terribile. Non si faranno scrupoli a lanciare i loro missili strategici avanzati. Ma vinceremo questa battaglia. E salveremo Odessa…». Dio lo voglia! Tutti in Occidente temono che Putin, impazzito, possa fare ricorso alle armi nucleari. Ma c’è qualcosa di molto più semplice. Qui sulla costa, a Juzne, a qualche chilometro dagli avamposti della 28ma brigata, c’è una fabbrica gigantesca, la Odessa Port Factory. Ora è chiusa ma fino al mese scorso produceva un quarto dell’ammoniaca e dell’urea del paese. E se metà dei serbatoi, quella che appartiene ad aziende ucraine, è stata svuotata durante i primi giorni della guerra, l’altra metà, di proprietà di un’azienda americana, è ancora piena. Negligenza? I cannoni russi troppo vicini? Le navi cisterna americane non hanno potuto avvicinarsi per via delle mine?
Il comandante della brigata, Vitaliy Huliayev, non lo sa. Immaginiamo però, mi dice, un attacco nemico. Deliberato o meno. Oppure deliberato ma camuffato da incidente o attribuito agli ucraini. Dentro quei silos verdi alti cento metri c’è di che contaminare tutta la regione. Peggio di Chernobyl, insiste. Peggio della centrale di Zaporizhzhia, attaccata dai russi il 4 marzo, che però è dotata di interruttori di emergenza e sistemi di sicurezza in grado di limitare i danni. Persino peggio, a parità di sostanze altamente tossiche, dell’esplosione a Beirut nell’agosto del 2020, la cui onda d’urto è arrivata fino a Cipro. È il tragico dilemma degli odessiti. Devono battere Putin ma sanno che, quando sarà sconfitto e non avrà più niente da perdere, quella sarà la sua ultima carta. Viva la muerte. Pessima nottata. Per due volte la babushka di servizio è venuta a bussare alle nostre porte. Le sirene ululano… Ci mettiamo addosso qualcosa… Scendiamo nel locale caldaia che, equipaggiato con sedie di plastica e scatoloni di provviste, funge da rifugio. E ben presto, sugli schermi dei nostri telefoni, appaiono delle scie di fuoco che striano il cielo nero e sembrano troncate in volo… Al mattino presto debriefing con Sergey Bratchuk, del quartier generale delle forze ucraine di stanza a Odessa. Un missile Kalibr, lanciato dal mare, ha colpito un quartiere facendo un po’ di danni. Un secondo, caduto dal cielo e diretto a Velykodolyns’ke, dove c’è il centro delle telecomunicazioni dell’esercito, ha mancato il bersaglio. Cinque altri sono stati intercettati dallo scudo antimissile ucraino. Se ho capito bene, i sistemi di difesa antiaerea della 160ma brigata di artiglieria, con i loro vecchi missili terra-aria S-300, funzionano. E forse questi attacchi sferrati ogni notte dopo il coprifuoco servono a testarli e a individuarne la posizione. Quello che purtroppo manca sono i mezzi per abbattere i missili cruise lanciati dalla flotta russa venuta dalla Crimea. Odessa dispone di missili antinave Neptune, di fabbricazione ucraina. Ma sono lenti. Facili da neutralizzare. E meno efficaci degli Harpoon a lunghissimo raggio, prodotti dalla Boeing, che solo gli americani e gli inglesi potrebbero fornire. Degli arpioni per Odessa? Petro S., membro del teatro dell’Opera, è uno dei vecchi amici che mi avevano accolto nel 2014. Il suo quartiere è infestato di agenti al soldo di Putin. Riceve minacce da parte di “vendicatori mascherati” che vorrebbero fargli pagare la morte di 48 manifestanti filorussi nell’incendio della Casa dei sindacati. Per questo si è trasferito in campagna. Lo incontriamo in una piccola dacia nei pressi di Myrne, a metà strada fra Odessa e la frontiera con la Moldavia. Questa faccenda della Casa dei sindacati è fondamentale, mi spiega, per capire cosa passa per la testa di Putin. Nel suo discorso del 21 febbraio, tre giorni prima dell’inizio dell’invasione, non ha forse fatto riferimento al “fremito di orrore” che ancora gli suscita «la terribile tragedia di Odessa»? E non ha indicato la ricerca dei «criminali che hanno commesso tale atrocità » come uno degli obiettivi della guerra? E quindi, naturalmente, Mariupol. E Mykolaiv, senza dubbio. Ma il boccone più grosso, la regina delle battaglie, la ciliegina sulla torta di sangue, secondo Petro sarà la presa di Odessa. E lo sarà per le ragioni geostrategiche che conosciamo (affamare l’Ucraina impossessandosi del suo porto principale e assicurarsi il controllo del Mar Nero) ma anche per ragioni simboliche (riprendersi una volta per tutte una città-gioiello, una perla che tutti gli abitanti della Grande Russia considerano la San Pietroburgo del sud).
Ci congediamo da Petro. Non siamo ancora al primo checkpoint in direzione di Odessa che ci manda un video: l’immagine di una granata che, un quarto d’ora dopo la nostra partenza, è caduta su Myrne, vicino alla graziosa chiesa ortodossa con le cupole dorate! Che danni produce uno di questi missili Grad o Kalibr che i russi fanno piovere sulle città ucraine? Non serve andare lontano per scoprirlo. Siamo alla periferia della città, nel cuore dell’ex zona industriale. In fondo a una strada dissestata e completamente deserta dove la rasputica, il disgelo, non ha ancora finito di sciogliere la neve e trasformarla in poltiglia, si apre un paesaggio apocalittico. Qui c’era una fabbrica di casalinghi. Quel che ne resta, su un’area di un ettaro, è un cumulo di macerie. Porte di ferro rimaste in piedi in mezzo al nulla, accartocciate dalla violenza dell’esplosione. E qua e là, fra il pandemonio di lamiere, putrelle e pilastri d’acciaio fusi dall’incendio, un asciugacapelli o un cuociriso. Il guardiano della fabbrica, con le palpebre arrossate dalla stanchezza e lo sguardo spento, si domanda il perché di una devastazione simile. Un altro test? Un cieco atto di terrorismo per indurci a scappare? O forse, dato che la fabbrica ai tempi dell’Urss ospitava un deposito militare, i servizi russi sono in ritardo di trent’anni? Gli sottopongo la mia ipotesi. E se la ragione di questo bombardamento insensato fosse puro odio? E se Odessa, questo concentrato di civiltà, cultura e bellezza, occupasse, nell’immaginario del mega-cecchino Putin, il posto occupato a suo tempo da Sarajevo in quello dei Milosevic e dei vari Mladic? Furia rivolta alle città e a quello che rappresentano. Furore urbicida. L’eterno ritorno, sotto un cielo livido di collera, dell’antica barbarie. A Sarajevo ho imparato che la vittoria non dipende dalla dimensione degli eserciti ma dal loro morale e dalla resistenza dei cittadini. Ebbene, a Odessa è la stessa cosa. E se l’assalto tarda ad arrivare, forse è per questa ragione. Siamo nella sede del gruppo Chornomorya, gigante dell’editoria e della stampa ucraina costretto dalla guerra a fermarsi. Volontari di tutte le età, in maggioranza donne, sono accovacciati davanti a delle alte grate sulle quali, con vecchi vestiti ridotti a striscioline portati dagli abitanti di tutti i quartieri, si fabbricano delle reti che serviranno a mimetizzare le barricate e i carri armati della città. Oltre queste immense filande da cui all’improvviso, per farsi animo nell’impresa, si leva l’inno ucraino, in fondo a una galleria che mi ricorda che Odessa vanta il più vasto labirinto di catacombe del mondo, ecco un altro laboratorio. Qui una classe di studenti di storia, alla luce di una sola lampada appesa al soffitto, prepara bottiglie molotov in catena di montaggio. Una bottiglia vuota. Un dito di acetone. Una parte di olio da motore. Un po’ di benzina. Una specie di pelle di daino a fare da tappo. Un filo di ferro stretto intorno al collo. E un foglio di alluminio per conservare gli esplosivi in attesa che i furieri dei reggimenti vengano a prenderli.
Questi ragazzi dalla voce arrochita dai vapori di benzina, questi figli del paradiso e, per il momento, dell’inferno, hanno solo vent’anni. Studiavano la storia. Ora la fanno. In un capannone trasformato in deposito di aiuti umanitari, alle porte della città, ritroviamo due delle tessitrici, delle Parche, del giorno prima. Abbiamo detto loro che è una fortuna, per l’Ucraina straziata, avere un presidente come Zelensky, il comico vittorioso trasformatosi in giovane Churchill che non vuole diventare un martire. Ci hanno interrogato sulla storia della Resistenza e della Rivoluzione di cui Parigi è stata protagonista e di cui qualcosa rivive, ai loro occhi, in questa città così eminentemente francese. E allora a un tratto, unendo il gesto alla parola, propongo loro di accompagnarci fino all’avenue Richelieu dove, su una fila di blocchi di cemento dipinti di giallo e blu, i colori dell’Ucraina, andiamo a scrivere il motto “Liberté, égalité, fraternité”, un motto che ha fatto il giro del mondo ma di cui oggi il loro paese, più di ogni altro, sperimenta il prezzo. Le nostre amiche applaudono. I volontari di turno, sulle prime diffidenti, si avvicinano e si sfilano le manopole per farsi dei selfie. Gli ultimi abitanti del quartiere si affacciano alle finestre e gridano ora “Vive la France” ora “Slava Ukraini”. Tornati a casa faremo dell’ironia su questo gesto. Ma per loro, per gli abitanti di Odessa, queste tre semplici parole riassumono tutto. E vederle scritte, fosse solo per qualche ora, da una mano amica, nel cuore della loro città appesa a un filo, dona un po’ di sollievo a una sofferenza che sembra non aver fine. La questione dell’antisemitismo è una delle più scottanti che si pongono all’Ucraina. E lo è specialmente qui, a Odessa, dove prima della seconda guerra mondiale gli ebrei costituivano la metà della popolazione e oggi sono solo quarantamila. Siamo al memoriale dell’Olocausto, in via Prokhorovs’ka, nel vecchio quartiere ebraico di Moldavanka. Il singolare monumento si compone di cinque figure scheletriche coi piedi circondati da una corona di filo spinato che sembrano immortalate durante una danza macabra.
Il viale che porta al monumento è fiancheggiato da betulle, ognuna delle quali rappresenta un Giusto che ha ospitato e salvato degli ebrei. Perché, domanda Roman Shvarcman — l’uomo che ci accoglie, l’unico sopravvissuto ancora in vita di quella Shoah a colpi di fucile — lo sapete che l’Ucraina, secondo i registri dello Yad Vashem, è uno dei quattro paesi con il maggior numero di Giusti fra le Nazioni? Lo ha detto con dolcezza. Con tristezza. Mi aspettavo uno di quei personaggi boriosi e truculenti caratteristici della mitologia ebraica di Odessa. Invece no. È un vecchio prostrato. Un uomo gracile, avvolto in un mantello di lana nera, per il quale il fatto di essere sopravvissuto è allo stesso tempo un onore e un fardello. E all’improvviso, mentre racconta i massacri dell’ottobre del 1941, seguiti all’arrivo delle truppe romene, questo piccolo uomo modesto si mette a piangere. Per questi Giusti di cui è il custode? Per i morti di cui questa è la tomba? Per la sua solitudine di sopravvissuto? O per la follia degli uomini che ricomincia, con un fantasma di Hitler che, con la pretesa di “denazificare l’Ucraina”, ha il coraggio di ammantarsi della memoria delle vittime? Non lo so. Un giornalista canadese con un bizzarro concetto della fratellanza ha postato sui social una fotografia, scattata a mia insaputa, che mi ritrae assieme al governatore Marchenko. E su Twitter, per via del fatto che il governatore, dal 2015 al 2017, ha comandato un’unità di partigiani, il battaglione Aidar, all’interno del quale vi era un gruppetto di nazionalisti di estrema destra, c’è chi si è messo a trollare approfittando dello stereotipo dell’intellettuale ebreo che se la fa con un neonazista… Rispondere che nulla, del Marchenko che conosco e che per due volte ho intervistato, giustifica un’accusa tanto ignobile? Che il destino di ogni resistenza, a partire da quella della Francia occupata, all’inizio è servirsi di ogni mezzo a disposizione e raccogliere anche i pregiudicati, i reietti e le peggiori teste calde? Che trovo infame chi fa la lezioncina pretendendo di sapere meglio di Zelensky chi sia l’ufficiale più adatto a difendere una città- simbolo? Lo farò quando torno. Per il momento, la questione mi sta sfuggendo di mano. Un canale televisivo moscovita, Russia 1, ha trasmesso un servizio che mi dipinge come un “angelo della morte” da scovare e cacciare dalla città. E un gruppo di “patrioti russi” è arrivato a creare una pagina Facebook per mettere una taglia sulla mia testa e offrire un milione di rubli a chi mi eliminerà. Ho l’informazione che mi mancava e che, grazie al leggendario senso dell’umorismo degli odessiti, suscita l’ilarità dei nostri amici ucraini. Gli organi di propaganda del Cremlino sono sempre più confusi. E il fatto che un milione di rubli valga ormai pochi euro dimostra che le sanzioni funzionano e la Russia ha perso. La mia giornata è finita. Lascio l’ultimo capo d’Europa. Prego gli dei di risparmiare i miei amici di Odessa.
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