Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 14/03/2022, a pag.20, con il titolo "Se nel dibattito spariscono le vittime" il commento di Luigi Manconi.
Luciano Canfora
Luciano Canfora, erudito filologo classico, intervistato dalla nuova Gazzetta del Mezzogiorno diretta da Oscar Iarussi, ha parlato dell’invasione russa dell’Ucraina come di «una guerra tra potenze», nella quale «il torto sta dalla parte della potenza che vuole prevaricare»: cioè l’Ucraina. E ha definito «passanti» i profughi, aggiungendo che «la storia di una Irina che perde il bambino è un caso particolare e basta». Ho la sensazione, osservando le reazioni all’intervista, che le opinioni di Canfora siano ampiamente condivise all’interno di quel mondo che chiamiamo “sinistra”, fino a costituire il sentimento di una parte di esso. Mi auguro, tuttavia, che non ne rappresenti la maggioranza, perché, se questa fosse la sinistra, io mi troverei altrove. E, infatti, finora ho ritenuto che il punto di vista – direi l’ermeneutica – di ciò che da due secoli intendiamo per sinistra passasse attraverso il nodo dei rapporti di produzione e, di conseguenza, l’analisi di chi comanda nell’organizzazione dell’economia e della vita sociale. E, più in generale, che quel punto di vista si ritrovasse nell’adesione alla condizione materiale della vittima nel suo immanente inverarsi: come schiavitù, servaggio, oppressione di classe, segregazione razziale, discriminazione di genere. Invece, in modo mirabile nelle affermazioni di Canfora, e più sciattamente in quelle di altri, le vittime scompaiono. In un duplice senso: perché vengono rimosse dalla vista e dal discorso in quanto sopraffatte dalla genealogia delle cause storiche, antropologiche, etniche, geografiche e diplomatiche, che espungono la “nuda vita” e la cruda sofferenza («Irina che perde il bambino»).
Vladimir Putin
E perché le stesse vittime sono sollecitate a scomparire in quanto la loro sopravvivenza resistente incrementa il numero dei morti, prolunga il conflitto e, se aiutata dai mezzi militari dei paesi europei, mette in pericolo “la sicurezza nazionale” di quegli stessi paesi. Da qui, pressoché inevitabilmente, un pressante invito alla resa. Quasi che, la capitolazione e la sottomissione, non finissero col rappresentare il più potente incentivo alle mire imperiali della Russia nei confronti di altri paesi della regione e ancora oltre. In ogni caso, il risultato sarebbe la cancellazione delle vittime e il loro confinamento nelle zone oscure delle dinamiche storiche e degli eventi sociali, secondo una logica di potenza e secondo una interpretazione autoritaria e statolatrica dei processi geo-politici e delle relazioni internazionali. E il termine “autoritario” è forse il più appropriato: se ne ha una dimostrazione a contrariis esaminando alcune opzioni proprio delle differenti culture della sinistra. Personalmente ho sempre creduto che diritti sociali e diritti individuali dovessero tenersi insieme e che le garanzie collettive a tutela dei bisogni prioritari (lavoro, istruzione, abitazione) non fossero in alternativa a quelle poste a protezione delle istanze soggettive della persona (autonomia individuale, opzioni sessuali, autodeterminazione sulla propria vita e sulla propria morte). Per questo sono sempre stato dalla parte del sindacato e dei conflitti per il lavoro, restando tuttavia convinto che un disoccupato, un cassintegrato, un operaio avessero diritto, anch’essi, al loro pezzo di felicità: e, dunque, al riconoscimento delle proprie scelte sessuali, del proprio desiderio di genitorialità, della possibilità di incontrarsi e di lasciarsi, della facoltà di procreare e di decidere del proprio fine vita.
Ma la sinistra autoritaria, quella che «anche Putin ha le sue ragioni », non sembra pensarla così. E, nel corso di questi decenni, mai l’ho trovata accanto a chi si batteva contro l’uso del letto di contenzione a danno di persone fragili: e contro gli abusi di polizia che hanno portato alla morte di Giuseppe Uva e di Stefano Cucchi e di tanti altri; non l’ho trovata nel sostegno alle Ong del soccorso in mare e dell’accoglienza di migranti e richiedenti asilo e nella solidarietà a Mimmo Lucano; nella critica alla pena dell’ergastolo e a un carcere ridotto a macchina patogena e criminogena; e nemmeno al capezzale di Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, Fabiano Antoniani e, in ultimo, “Mario”, tetraplegico marchigiano. Non l’ho trovata in quei luoghi del dolore, la sinistra autoritaria, perché – immagino – ritiene tali questioni, secondo una lettura triviale del marxismo, “sovrastrutturali”; e perché considera pazienti psichici, detenuti, migranti e profughi (compresi quelli ucraini) una sorta di moderno lumpenproletariat. Ecco, potrà sembrare pretestuoso, ma io credo che questa assenza abbia uno stretto rapporto con la concezione dello Stato coltivata dalla sinistra autoritaria. Una concezione che, all’interno degli stati nazionali, si manifesta come tendenza alla centralizzazione e al controllo degli istituti della rappresentanza democratica e come sospetto verso le forme di partecipazione popolare, quali i referendum. Nello scenario internazionale quella stessa tendenza si esprime come celebrazione di una presunta realpolitik, dei rapporti di forza vigenti e dello status quo, della «volontà di potenza» a danno delle costruzioni condivise e multipolari. Ma se, come temo, questa sinistra fosse destinata a diventare maggioritaria, dovremmo riconoscere che ha vinto e che, con essa, ha vinto la ragion di Stato. In tal caso, disponiamoci – appunto – «dalla parte del torto». Ovvero degli ucraini.
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